Viaggi. Nelle ultraperiferie dell’Europa, alla ricerca di modelli di convivenza.

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di Adriano Favole

Europa è una piccola isola tropicale dell’Oceano indiano, a metà strada tra il Mozambico e il Madagascar. E’, oggi, uno dei siti più importanti per la riproduzione della tartaruga verde e ospita una piccola delegazione di militari francesi. In effetti, situata a 8.000 chilometri da Parigi, Europa fa parte delle Terre australi e antartiche francesi, con altri micro territori insulari come Kuerguelen, Saint Paul e una porzione dell’Antartide detta Terra Adelia. Più a nord di Europa, l’isola di Mayotte è dal 2011 il 101° Dipartimento francese, il quinto d’Oltremare insieme a Guadalupa e Martinica (Caraibi), Guiana (Centro America) e La Réunion (Oceano indiano). Gli abitanti di Mayotte, poco più di 180 mila, sono in gran parte islamici (oltre il 97%). Da quando ha acquisito lo statuto di Dipartimento, Mayotte attrae una forte immigrazione clandestina dalle altre isole Comore, poverissime e indipendenti. I comoriani tentano di entrare in un territorio dell’Unione Europea, come fanno africani e siriani attraversando il Mediterraneo: Mayotte, per l’UE, ha lo statuto di Regione Ultraperiferica (RU). Mayotte è a tutti gli effetti un’isola d’Europa, lontana certo da Bruxelles, sconosciuta ai più, ma periferia attraente e confine da attraversare, tra Africa e Oceano Indiano. Che ci fanno la Francia e l’Europa da queste parti? Quali interessi, quali motivazioni spingono il governo di Parigi a difendere questi territori dalle rivendicazioni del Madagascar (che chiede la “restituzione” di Europa, l’isola) e delle Comore (che chiedono l’annessione di Mayotte)?

La Rèunion, con i suoi 800 mila abitanti, è un’altra isola francese ed europea, situata in un non-luogo del nostro immaginario geografico, a est del Madagascar, in quelle isole Mascarene che comprendono la più famosa Mauritius e Rodriguez. Gli abitanti della Réunion sono in parte discendenti di ex schiavi affrancati dopo l’abolizione della schiavitù in Francia (20 dicembre 1848), detti Cafres o Kafres; in parte sono discendenti di indiani del Tamil Nadu che arrivarono sull’isola per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero a partire da metà Ottocento e di commercianti Gujarati e cinesi; sono popolazioni musulmane di origine indiana, detti Z’Arabes (versione creola del francese Les Arabes); sono Créoles, “creoli”, ovvero meticci o discendenti di lunga data di coloni francesi; e infine sono funzionari o comunque immigrati dalla Francia continentale da poco stabiliti sull’isola – nell’oltremare francese li chiamano Métro o Z’Oreilles, letteralmente “le orecchie”, pare per la facilità con cui il sole tropicale arrossisce questa zona del corpo di chi ha la pelle chiara. La Réunion è lo zuccherificio d’Europa, nonché produttore di caffè e di rhum, un’altra Regione Ultraperiferica dell’UE in cui convivono cristiani di diverse confessioni, induisti, islamici, devoti di culti creoli come il vudu o il meno esotico culto di Sant’Espedito, martire cristiano appartenente più alla mitologia che alla storia, a cui sono dedicati molti altarini di colore rosso disposti lungo le trafficate arterie dell’isola. Di nuovo: che Europa è questa terra decentrata, né Africa né India, né occidente né oriente, né colonia e né paese indipendente? Perché l’Europa si dimentica di questi suoi cittadini, perché neppure la cartografia raffigura tutti quei paesi ultramarini sparsi sull’atlante, di bandiera inglese, olandese, portoghese, francese e di cittadinanza europea?

Eppure, ci sarebbero almeno tre buoni motivi per cui, di questi tempi, l’Europa continentale potrebbe interessarsi dell’oltremare. Il primo è la memoria coloniale, il grande buco nero dell’auto-rappresentazione europea. Nei giorni scorsi ho visitato il Museo “Stella Matutina”, a Saint Leu, nella parte occidentale della Réunion. Stella Matutina è il nome di una fabbrica di zucchero che ha chiuso i battenti e ha riaperto di recente come centro di ricerca e documentazione. Una mostra racconta una pagina di storia coloniale, quella degli schiavi “dimenticati” sull’isolotto di Tromelin, un chilometro quadrato di sabbia disperso nell’Oceano indiano. Nel 1761 una nave francese fece naufragio a Tromelin: i 160 schiavi malgasci che erano a bordo e che dovevano essere venduti ai proprietari terrieri dell’Ile de France (oggi Mauritius) furono abbondonati sull’isola dall’equipaggio che riuscì, con una imbarcazione di fortuna, a tornare in Africa. Nonostante le promesse, nessuno tornò a cercarli fino a quando, quindici anni dopo, i sopravvissuti – 8 donne e un bambino – furono recuperati da una corvetta francese. La mostra, curata da un gruppo di archeologi, ricostruisce il modo in cui, durante quei terribili 15 anni, gli schiavi provarono a sopravvivere rifondando una microscopica società in un chilometro quadrato di fragile sabbia oceanica. Da queste parti, in piena modernità e nel secolo dei Lumi, non nella tanto evocata oscurità della barbarie, francesi ed altri europei trafficavano esseri umani e non esitavano ad abbandonarli al loro destino su una spiaggia tropicale. Oltre 160 mila schiavi furono portati a La Réunion dall’Africa e dal Madagascar. La schiavitù e il colonialismo hanno contribuito in maniera determinante a formare le attuali ricchezze d’Europa: le ultraperiferie sono piene di storie che ce lo ricordano, e forse per questo sono avvolte nelle nebbie dell’oblio.

Il secondo motivo per cui sarebbe importante (oltre che opportuno) ricordarsi di queste isole è che, al contrario di come sono spesso rappresentate in chiave turistica – isole “autentiche” in cui ritrovare una natura, se non un’umanità, primordiale -, esse sono in realtà luoghi profetici e laboratori di convivenza che, in un certo senso, hanno precorso i tempi. “Sono tamil, induista e cristiana” – mi spiega una anziana donna che ho conosciuto nel sud della Rèunion. Nel cimitero di S. Pierre, le tombe indu sono colorate di giallo, a volte decorate con la trishula, l’“arma” di Shiva; non manca quasi mai, tuttavia, la croce cristiana. Vista a queste latitudini, la partecipazione di rappresentanti dell’Islam alla messa cristiana di cui i giornali europei hanno lungamente parlato dopo la strage di Nizza, non appare proprio come un fatto epocale. Il dialogo interreligioso e lo sviluppo di pratiche e culti sincretici e creoli è moneta corrente, voluta o imposta, a volte da secoli nelle contrade ultramarine d’Europa. Vivre ensemble (noi diremmo la “convivenza”) e créole, un aggettivo passepartout che si applica alla cucina, ai culti, alle persone, alla lingua locale sono non a caso tratti ricorrenti dell’auto-rappresentazione degli abitanti della Réunion. Senza idealizzare un’isola ricca di contrasti, in cui l’uguaglianza tra le varie comunità è tutt’altro che garantita, in cui una dilagante disoccupazione spinge i giovani verso la métropole (la Francia continentale), è inevitabile chiedersi se i modelli di convivenza storicamente realizzati in questi territori non dovrebbero essere di grande interesse per un continente spaventato a morte dal pluralismo culturale.

Il terzo motivo che fa di queste isole un’avanguardia  è l’aver sperimentato molto tempo prima dell’Europa continentale l’attrazione fatale e i drammi della globalizzazione economica. Le variazioni della domanda di zucchero di canna, anche in seguito alla “scoperta” della barbabietola; il successo e la repentina crisi di colture come il thè, il caffè e il geranio per farne olio essenziale; di questi tempi un’industria turistica che risente della crisi delle mete francofone, giudicate a rischio di terrorismo. La globalizzazione è un animale attraente, ma selvatico, pericoloso e capace di movimenti improvvisi e di attacchi imprevedibili. Insomma all’Europa non farebbe male ricordarsi di essere anche un insieme di isole confinate nell’esotismo turistico, eppure molto più contemporanee di quanto in genere si pensi. Persino la storia di Europa (l’isola) ha qualcosa da insegnare a un continente invecchiato, diviso e impaurito.

 

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