Unione Europea: addio al “patto di stupidità”?

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Sono passati quasi vent’anni da quando nel 2002 Romano Prodi, allora Presidente della Commissione europea, definì stupido il Patto di stabilità varato dal Consiglio europeo nel 1997.

Oggi quel “Patto di stupidità” è tornato sul tavolo della nuova Commissione europea nel tentativo di modificarlo e di temperarne i limiti, in vista dell’adozione di un nuovo Patto entro la fine dell’anno prossimo.

Vale la pena raccontarne brevemente la storia per prepararsi ai suoi sviluppi futuri e all’impatto sul bilancio dell’Italia, cominciando con ricordarne il titolo esatto “Patto di stabilità e crescita”, anche perché già il titolo troncato a metà la dice lunga sull’uso dissennato che ne è stato fatto e sul prevalere sistematico della stabilità sulla crescita.

Obiettivo del Patto era quello di garantire la disciplina di bilancio degli Stati UE per evitare disavanzi eccessivi e contribuire così alla stabilità monetaria. Questo avveniva non a caso in preparazione dell’adozione della moneta unica e in vista dei futuri allargamenti verso est dell’Unione.

Abbiamo ancora memoria dei discutibili parametri fissati per la stabilità: debito del bilancio pubblico inferiore al 3% del Prodotto interno lordo (PIL) e debito pubblico del 60% sul PIL o, almeno, in costante diminuzione rispetto a questa soglia. Le intenzioni erano sicuramente buone (anche se per qualche Paese un capestro), ma di buone intenzioni può “essere lastricato l’inferno”,  con una  rigidità che mal si addiceva alle dinamiche variabili dell’economia e alle divergenze dei fondamentali economici tra i Paesi UE.

Per capirne la “stupidità”, e in qualche caso la crudeltà, basti pensare a quanto avvenuto con la crisi della Grecia o, più vicino a noi nel tempo e nello spazio, al debito pubblico italiano di oggi, due volte e mezzo la soglia fissata a fine secolo scorso, senza poterne attribuire  tutta la responsabilità a Covid e dintorni. Si aggiunga a questo che i Paesi fuori soglia, come l’Italia, avrebbero dovuto ridurre il loro debito di un ventesimo ogni anno: si calcoli cosa significherebbe per il bilancio pubblico italiano, gravato di un debito che si sta rapidamente avvicinando ai 2mila miliardi 800 milioni di euro.

La crisi economica generata dal Covid aveva indotto l’UE al buon senso, sospendendo quel Patto a fine 2023 ed è arrivato adesso il momento di rivederne le regole.

La proposta della Commissione, presentata il 16 novembre prevede, insieme con il mantenimento discutibile dei vecchi e irrealisti parametri, una sua revisione nel senso di maggiore flessibilità e anche di minore severità nel percorso di riduzione del debito, consentendo tappe più lunghe per raggiungere l’obiettivo della stabilità. Ma dire flessibilità significa anche dotarsi di più ampi margini di valutazione, convenendo sulle rispettive responsabilità istituzionali.

E qui le cose tornano a complicarsi nel complesso quadro istituzionale UE, dove interagiscono in materia la Commissione, “guardiana” delle regole comunitarie, e il Consiglio dei governi nazionali per la decisione finale: la prima chiamata ad interpretare le effettive condizioni economiche degli Stati membri e la reale disponibilità delle loro risorse finanziarie; i Governi nazionali poco disponibili a rafforzare il ruolo della Commissione e determinati a salvaguardare gli interessi nazionali, in un clima di diffidenza a proposito dell’affidabilità di altri partner, considerati “lassisti” in materia di finanza pubblica, come nel caso dell’Italia.

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