Un’altra Europa è possibile. Ma quale?

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Per molti anni confortava la speranza che “un altro mondo è possibile”, poi sono arrivate le guerre, l’inarrestabile crisi climatica, l’aumento delle diseguaglianze, il dramma dei flussi migratori e abbiamo ripiegato sulla convinzione che, almeno, “un’altra Europa è possibile”. Adesso il momento è venuto di interrogarci se anche da questo fronte stia diventando probabile una ritirata, “strategica” o “tattica” che sia. 

Un interrogativo suggerito dalla sessione plenaria del Parlamento europeo della settimana scorsa a Strasburgo dove alcune votazioni inducono a chiederci a quale Unione Europea le forze politiche stiano lavorando, se ancora quella dei Padri fondatori o quella di figliastri affondatori di uno straordinario progetto di convivenza pacifica tra culture diverse, finora realizzato grazie ad una progressiva limitazione delle sovranità nazionali, come richiesto dall’art. 11 della nostra Costituzione.

A Strasburgo, per i più ottimisti, si sono registrati alcuni “incidenti” politici che, a più riprese, hanno visto traballare non poco la maggioranza europeista uscita vittoriosa dalle elezioni dello scorso giugno. Per gli osservatori più realisti si sarebbe trattato di una clamorosa rottura del “cordone sanitario” che quella maggioranza – di cui era fragile espressione la riconfermata presidente della Commissione Ursula von der Leyen – ha operato con un’alleanza tra la destra del Partito popolare europeo (PPE) e le destre estreme, rappresentate dal gruppo dei Patrioti di Marine Le Pen, di Matteo Salvini e di Viktor Orban, del partito tedesco neo-nazista “Alternativa per la Germania”e, come prevedibile, in compagnia degli euro-parlamentari italiani di Fratelli d’Italia.

Materia del contendere sono state misure finanziarie per arginare i flussi migratori, in particolare la destinazione delle risorse del bilancio UE alla costruzione di muri fisici di sbarramento, nuove soluzioni per trattenere fuori dall’UE migranti in arrivo (come nel caso Albania) e il rafforzamento della polizia europea di frontiera. 

Hanno votato contro solo socialisti, verdi e liberali e qualche rappresentante del PPE, quest’ultimo schierato massicciamente con destre varie ed estreme: quanto basta per chiedersi quale sia la vera maggioranza che si profila al Parlamento su un tema sensibile come quella dei movimenti migratori, candidato a diventare una chiave di lettura delle future politiche europee.

Sembra disegnarsi così una traiettoria che, dall’epoca di forte convinzione europeista dei primi vent’anni delle Comunità europee, ha cominciato a registrare rallentamenti già con il primo allargamento del 1973, con l’ingresso del Regno Unito, e rotture di solidarietà via via con gli allargamenti successivi, in particolare ad inizio secolo con i Paesi in provenienza dall’ex-Unione Sovietica. 

“L’altra Europa”, che sembrava possibile a cavallo del secolo, dopo la caduta del Muro di Berlino, si è fatta progressivamente più difficile da consolidare ed episodi recenti – come i citati voti del Parlamento europeo – rischiano di logorare. 

Non mancano in proposito le responsabilità della Commissione, solo a tratti capace di svolgere il suo compito istituzionale di “garante dei Trattati” (si veda le sue debolezze sul caso ungherese), adesso in attesa di ricostituirsi per un nuovo mandato. Forse gli “europeisti” che siedono al Parlamento europeo sono ancora in tempo per opporsi a questa deriva, cominciando col chiedere conto alla Commissione del suo operato senza escludere una possibile temporanea ritirata, anche solo tattica e non strategica, da una maggioranza che sta tradendo l’intesa politica, alla base dell’elezione di Ursula von der Laeyen, la cui riconferma a fine novembre dovrà essere occasione di un chiarimento. 

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