Un incerto futuro per l’Unione Europea

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Era attesa da un anno la convocazione della “Conferenza sul futuro dell’Europa” e finalmente un segnale è stato dato mercoledì 10 marzo, con la firma di una “Dichiarazione comune” da parte di due Presidenti e mezzo dell’Unione Europea. Non se l’abbia a male per questo dimezzamento il Presidente del Consiglio dei ministri di turno in questo primo semestre, il premier socialista portoghese Antonio Costa, che dopo aver firmato la Dichiarazione lascerà presto il posto, alla guida della Conferenza, al suo collega sloveno nel secondo semestre e a quello francese a inizio 2022, non a caso in coincidenza con le elezioni presidenziali in Francia.

Tutt’altro che un dettaglio questa singolare sottoscrizione del documento, firmato da altri due Presidenti UE, David Sassoli per il Parlamento europeo e Ursula von der Leyen per la Commissione entrambi, salvo imprevisti, in carica fino a conclusione della Conferenza e quindi, si suppone, con il vantaggio della continuità rispetto a un Presidente del Consiglio dei Ministri UE a rotazione semestrale, limite che non avrebbe avuto il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ma con il difetto di rappresentare i Capi di Stato e di governo, non proprio desiderosi di assumersi direttamente la responsabilità delle conclusioni della Conferenza, sempre se ci saranno.

Potrebbe sembrare singolare cominciare a parlare della Conferenza partendo dal tetto, invece che dalle fondamenta, dalle presidenze dell’Assemblea invece che dai contenuti, ma forse è proprio questa la chiave per capire ambizioni e contenuti della Conferenza.

Le ambizioni sono molto più quelle di chi guida o avrebbe voluto guidare la Conferenza: è stata questa, con la pandemia, la ragione principale del ritardo dell’avvio della Conferenza, che salvo imprevisti, si aprirà il 9 maggio, anniversario della Dichiarazione fondativa di Schuman nel 1951, che quest’anno difficilmente coinciderà con una festa per l’Europa. 

Il candidato alla guida della conferenza, il liberale belga ed ex-Primo ministro Guy Verhofstadt, era stato proposto a larghissima maggioranza, ma agli occhi del Consiglio dei ministri aveva il difetto di essere da sempre un deciso federalista e averlo bloccato la dice lunga sulle ambizioni corte della Conferenza.

Varrebbe la pena riprodurre il testo integrale della “Dichiarazione comune” ma è meglio rinunciarci.

Per almeno due buoni motivi: per lo spazio che richiederebbe la verbosità del testo e per la vaghezza dei contenuti e degli obiettivi indicati. 

Chi si aspettava dalla Conferenza il cosiddetto “cambio di passo” dell’UE rischia di rimanere deluso: nella dichiarazione troverà molte belle parole sulla partecipazione attiva dei cittadini e sulla democrazia, un’architettura barocca della composizione dell’Assemblea, tutto meno che “costituente”, che si riunirà il plenaria “almeno ogni sei mesi” (cioè due o tre volte) e una vaga lista di buone intenzioni, dalla lotta al cambiamento climatico alla trasformazione digitale, dall’equità sociale alla solidarietà intergenerazionale e via seguitando. “Vaste programme” commenterebbe con ironia buonanima del generale De Gaulle, senza che questo imbarazzi troppo il suo attuale  successore che della Conferenza era stato meritoriamente all’origine.

Grande infine la cautela sui nodi responsabili del (mal)funzionamento dell’UE, pur invocando cautamente “il miglioramento della regolamentazione, l’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità”,  ma senza evocare esplicitamente la strozzatura del voto all’unanimità dietro il quale si proteggono i governi nazionali, Ungheria e Polonia comprese.

Valgono anche per la Conferenza sul futuro dell’Europa le parole di Antoine de Saint-Exupéry: “Quanto al futuro, ciò che conta non è prevederlo, ma assicurarsi che ci sia”. Lo speriamo per noi, minacciati dalla pandemia e per l’Unione Europea, minacciata dalla sua mancanza di coraggio.

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