Il Consiglio europeo svoltosi a Bruxelles nei giorni 11 e 12 dicembre scorsi non è stato come tutti gli altri. L’UE vi arrivava, come al solito, in ordine sparso ma questa volta sotto la pressione di una crisi economica di dimensioni eccezionali e al termine del difficile semestre di presidenza francese. Un turno di presidenza dell’UE che era già partito male con il Trattato di Lisbona impallinato a giugno dal «no» del referendum irlandese, era proseguito anche peggio ad agosto con il pericoloso conflitto che in Caucaso aveva opposto Russia e Georgia ed era andato a sbattere a settembre con una crisi finanziaria trasformatasi rapidamente nella più grave crisi economica del dopoguerra.
Nei limiti imposti dal Trattato, peraltro interpretato con una certa flessibilità che ha irritato non poco la Germania, il presidente di turno dell’UE Nicolas Sarkozy si è mosso piuttosto bene e con tempestività , negoziando una tregua in Caucaso e promuovendo un ampio coordinamento tra i principali Paesi industrializzati per cercare una risposta comune alla crisi.
Il Consiglio europeo di dicembre si presentava quindi come l’occasione per tirare le fila del lavoro fatto nel corso del semestre, assumendo decisioni all’altezza della triplice sfida che l’Europa aveva davanti a sà©: superare il «no» irlandese al Trattato di Lisbona e consentirne l’entrata in vigore al più presto, trovare un compromesso sul pacchetto «clima-ambiente» e adottare un piano coordinato di risposta alla crisi economica.
Sul nodo del Trattato il Consiglio europeo ha preso atto dell’impegno del governo irlandese di indire un nuovo referendum in cambio di alcune garanzie per l’Irlanda, dando ancora una volta prova di grande pazienza. Obiettivo condiviso quello di iniziare il 2010 con il nuovo Trattato, ad oggi ratificato da 25 Paesi su 27, sperando che con la crisi in corso non sia troppo tardi e comunque affrontando le difficili elezioni del Parlamento europeo senza un segnale di novità condivisa.
Più difficile è stata la ricerca di un’intesa sul pacchetto «clima-ambiente», quell’insieme di misure che mirano per l’UE entro il 2020 a ridurre del 20% le emissioni di gas serra, aumentare del 20% le energie rinnovabili e accrescere del 20% il risparmio energetico. Qui a mettersi di traverso è stata in particolare l’Italia d’intesa con la Polonia, a conferma della loro scarsa sensibilità ambientale tradotta senza equivoci dalla classifica dei Paesi ecosostenibili che vede l’Italia occupare un non invidiabile 44° posto. Alla fine il compromesso raggiunto premia quanti hanno a cuore la salvaguardia del pianeta e riconferma gli obiettivi del 2020, affidando all’UE una beneaugurante leadership, in attesa che gli USA di Barack Obama riprendano la via del Protocollo di Kyoto e vi coinvolgano nuovi Paesi emergenti, in particolare la Cina. L’accordo ha concesso facilitazioni e deroghe all’Italia e ai Paesi dell’Est europeo, con il risultato di aggregare da una parte i Paesi decisi ad innovare e dall’altra quelli, come l’Italia, che finiranno per aggiungere ritardo a ritardo.
Altro piatto forte del Consiglio europeo era il piano anti-crisi. La Commissione europea aveva messo sul tavolo una proposta da 200 miliardi di euro, da reperire in gran parte dai bilanci nazionali con misure coordinate a livello europeo. Nel frattempo alcuni Paesi, il Regno Unito in testa e poi via via la Spagna, la Germania e finalmente anche l’Italia, avevano adottato piani nazionali di diseguali dimensioni (quello italiano era un quarto di quello inglese e francese e un sesto di quello tedesco) e, soprattutto, con divergenti misure come nel caso della riduzione dell’IVA adottata dal Regno Unito e non presa in considerazione dall’Italia e dello sforamento delle soglie consentite per la spesa pubblica.
In tale contesto, il Consiglio europeo aveva almeno due esigenze da comporre tra di loro: raggiungere un’intesa su un livello sufficiente di risorse globali da investire per far fronte alla crisi e garantire coordinamento e coerenza alle misure che ciascuno Stato si accingeva a adottare. Anche qui un compromesso è stato faticosamente trovato attorno all’obiettivo di rispondere alla crisi con quella massa critica di circa 200 miliardi di euro proposti dalla Commissione, ma lasciando che ogni Paese decida sovranamente le misure da adottare, comunque senza eccedere nello sforamento del deficit di bilancio. Sull’argomento si sono affrontati il duo Francia-Regno Unito, favorevoli ad un forte intervento pubblico per fare fronte all’emergenza, e la Germania, più preoccupata del rigore di bilancio e della stabilità dell’economia sul medio-lungo periodo. Ininfluente il ruolo dell’Italia, intrappolata dal debito e orientata a modesti interventi per l’immediata emergenza.
Come andrà veramente è tutto da vedere, ma lo capiremo presto. Saranno rivelatori gli «aiuti di Stato» già generosamente attivati per le banche e pronti per l’industria, in particolare quella automobilistica. Difficile evitarli se gli USA vi destineranno i 14 miliardi di dollari previsti: il governo svedese ha già pronto un pacchetto di oltre 2 miliardi di euro per la Volvo e non è arrischiato prevedere che qualcosa di analogo avverrà in Italia, Germania, Regno Unito e Francia. Qui il rischio è grande di alterare la concorrenza e di saccheggiare i conti pubblici, trasferendone i costi ai contribuenti come insegna in Italia la vicenda Alitalia.
Il Consiglio europeo di Bruxelles ha aperto la strada ad una nuova fase dell’economia dell’UE: non è sicuro che ne abbia rafforzato la dimensione comunitaria e posto le basi per una crescita sostenibile nel tempo in una stagione politica in cui i governi nazionali sono ripiegati sulle difficoltà di casa loro, esposti alla tentazione del «si salvi chi pu಻ mentre incombono scadenze elettorali ravvicinate.