All’indomani della sofferta apertura dei negoziati per l’adesione della Turchia, nulla è scontato nel proseguimento di quelle che saranno le prime vere negoziazioni di allargamento dell’Unione europea, perchà© – come ci ricorda Daniel Cohn-Bendit – si è ormai conclusa la riunificazione dell’Europa. Il progetto di spostare oltre il Bosforo i confini dell’Europa, perà², ha radici lontane: è infatti del 1963 il primo accordo che stabilisce la progressiva costruzione di un’unione doganale; bisogna aspettare il 1995 perchà© tale accordo venga portato a compimento e il 1999 perchà© l’Europa, al Consiglio di Helsinki, riconosca alla Turchia lo status formale di Paese candidato, dando il via alla strategia di pre-adesione.
Soltanto negli anni di inizio del nuovo millennio vengono definiti il parternariato di adesione, i criteri e le priorità a cui la Turchia deve attenersi, la strada per le riforme e l’adozione dell’acquis communautaire (regole, norme e politiche comuni che costituiscono il corpo della legislazione dell’UE). Arriviamo così agli ultimi dieci mesi segnati dalla decisione di aprire i negoziati (assunta dal Consiglio europeo del dicembre 2004) e, più recentemente dalle vicissitudini della dichiarazione unilaterale sul non riconoscimento di Cipro, della relativa controdichiarazione del Consiglio e della dura presa di posizione del Parlamento anche riguardo alla questione armena, per culminare nello per l’approvazione del quadro negoziale.
Alla fine del 2004 il Consiglio europeo riconosce che la Turchia soddisfa i requisiti essenziali per l’ingresso nell’Unione stabiliti al Consiglio di Copenaghen del 1993 e fissa per il 3 ottobre 2005 la data di avvio dei negoziati che si configurano come un processo aperto e non necessariamente si concluderanno con l’adesione. L’alternativa del «partenariato privilegiato» (auspicata da Francia, Germania e l’Austria) non viene evocata ma si parla esplicitamente di “lunghi periodi di transizione” e “limitazioni permanenti” nonchà© della possibilità di bloccare in ogni momento i negoziati in caso di violazione dei principi fondamentali dello Stato di diritto. Perchà© i negoziati possano aprirsi la Turchia deve varare sei leggi chiave nel campo dello Stato di diritto e firmare il protocollo di estensione dell’Unione doganale ai nuovi Membri, Le condizioni vengono soddisfatte, ma Ankara allega al protocollo ratificato una dichiarazione unilaterale con cui ribadisce il non riconoscimento di Cipro. Circa due mesi dopo arriva la risposta dei 25 che esprimono rammarico e non riconoscono al documento turco validità giuridica: l’applicazione del protocollo di Unione doganale deve riguardare tutti gli Stati membri e sarà monitorata costantemente durante l’evolversi dei negoziati di adesione. Il riconoscimento degli Stati membri è, inoltre, definito «una componente necessaria del processo di adesione» e si ritiene «necessario sostenere gli sforzi del Segretario Generale delle Nazioni Unite per una soluzione complessiva del problema cipriota in conformità con le Risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza e con i principi fondanti dell’Unione Europea«.
In extremis viene superato anche l’ultimo scoglio: l’approvazione del mandato negoziale che non menziona l’alternativa del partenariato privilegiato ma fa per la prima volta esplicito riferimento alla «capacità di assorbimento» dell’Unione come parametro di valutazione del «ritmo dell’integrazione».
Le traversie del confronto
L’esito dei referendum sulla Costituzione europea in Francia e in Olanda ha messo in crisi il processo di integrazione europea e lo spettro di una possibile adesione turca, per quanto lontana, ha allarmato le capitali europee e le ha rese sempre più intransigenti, a dispetto degli sforzi compiuti da Ankara negli ultimi anni per soddisfare le richieste dell’Unione.
Anche «l’Europa dei popoli» si è mostrata fortemente restia ad accettare l’ingresso della Turchia: secondo Eurobarometro, nel giugno del 2005 il 52% degli europei si dichiarava contrario, il 35% a favore e il 13% incerto. Ma i dati più impressionanti sono quelli di Paesi come l’Austria (80% di contrari), la Germania (74%) e la Francia (70%).
Negli ultimi mesi il dibattito pubblico Turchia sì-Turchia no ha finalmente affrontato temi di estrema importanza che dominano da tempo la scena politica turca: la questione identitaria, il multiculturalismo, le ricadute economiche di una possibile adesione. Si sono alzate voci che paventano una perdita di identità che puಠmanifestarsi nella negazione delle presunte «radici cristiane» dell’Europa e prospettano un’invasione culturale in un catastrofico scenario di asservimento dell’Europa all’Islam. Fra i laici è diffuso il timore di una crisi della fragile identità culturale europea – costruita ricomponendo faticosamente i pezzi di un continente dilaniato da secoli di guerre interne – provocata dall’entrata di un Paese la cui storia e il cui passato sono tanto distanti. Ci sono state anche posizioni di segno diverso: sul versante europeo alcuni hanno argomentato come l’identità europea, per essere sentita e solida, non possa basarsi sulle ceneri del passato, ma debba essere costruita guardando ad un futuro comune; tra gli intellettuali turchi, poi, è radicata la convinzione che l’ingresso in Europa costituirebbe un argine alle derive fondamentaliste ed un baluardo a difesa del messaggio laico di Atatà ¼rk, il padre della patria.
Le opportunità di un incontro
Nonostante i passi avanti degli ultimi anni, la Turchia è ancora carente sul fronte dei diritti umani: la tortura è illegale dal 2003 e dal 2004 Ankara è abolizionista totale sulla pena di morte, come tutti i Paesi europei; la riforma costituzionale e quelle dei codici civile e penale sono state indirizzate alla tutela dei diritti delle donne e delle minoranze, ma rimane bassa la presenza delle donne nella vita politica o nel mondo del lavoro rimane bassa cos come pure il loro livello di scolarizzazione; persistono, soprattutto nelle zone rurali, matrimoni forzati, delitti d’onore e violenze domestiche; le minoranze, soprattutto curde, sono ancora isolate e discriminate e la tortura non è ancora estirpata. Lo Stato di diritto in Turchia non è un dato acquisito, a causa della corruzione, dell’eccessiva influenza dell’esercito nella sfera pubblica e della scarsa libertà di espressione. Sono ancora molti i progressi che l’Ue chiederà alla Turchia prima di una effettiva adesione e proprio questa richiesta di tutela delle minoranze, di rispetto dell’habeas corpus, di difesa dei valori fondamentali della democrazia, rappresenta per l’Europa l’opportunità di proteggere il suo «modello» di democrazia dall’estremizzazione della ragion di Stato che arriva a consentire l’eliminazione dei nemici esterni in quanto costituiscono un pericolo per la comunità e che , è bene non dimenticarlo, è la matrice del crimine di cui la Turchia rifiuta ancora oggi di assumere le responsabilità : il genocidio armeno.
Anche dal punto di vista strategico, è la Turchia a costituire un’opportunità per l’Europa, essendo un punto di transito obbligato per gli oleodotti e i gasdotti che dal Caucaso muovono verso ovest senza passare per la Russia e controllando di fatto le disponibilità d’acqua del Medio Oriente: un inasprimento delle relazioni con la Turchia costituirebbe un duro colpo per le risorse dell’Unione.
Nella vecchia Europa, per cui l’allargamento ai dieci nuovi Membri ha significato una forte riduzione dei fondi strutturali, è diffusa l’idea che l’adesione della Turchia porterebbe ad un impoverimento generale dell’Unione. In realtà , secondo uno studio prodotto dal britannico Center for European Reform, non solo l’impatto economico dell’ingresso della Turchia in Europa non sarebbe così imponente come si pensa, ma anzi sarebbe positivo.
La Turchia è pronta ad affrontare il lungo e faticoso cammino che la porterà all’adesione ed un passo indietro dell’Europa sarebbe interpretato come una violazione del principio pacta sunt servanda: la correttezza nelle negoziazioni è d’obbligo se l’Unione vuol mantenere non solo la sua credibilità nei confronti degli altri partner, ma anche l’amicizia di un Paese chiave nel futuro ordine mondiale.