Tra Pechino e Washington, tra guerra e pace

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Si è conclusa una lunga settimana di incontri in cui, sia a Pechino che a Washington si è discusso di guerra e di pace. Due mondi distanti, già in conflitto fra loro che tentano, con le rispettive diplomazie, di disegnare nuovi e futuri scenari per un mondo in rapido cambiamento.

A Pechino, dove gli interessi a giocare un ruolo di mediazione e di protagonismo diplomatico sulla scena internazionale si moltiplicano da tempo a questa parte, come avvenuto il 23 luglio scorso, quando Hamas, Fatah e altre dodici fazioni palestinesi hanno firmato un accordo volto a superare le gravi divisioni interne e a puntare su un accordo di “unità nazionale”. L’obiettivo era quello di mantenere, a fine guerra, il controllo palestinese su Gaza e Cisgiordania e di gettare le basi per un “governo di riconciliazione nazionale provvisorio”. Essenziale, in questa prospettiva, il superamento delle profonde ostilità fra Hamas e Fatah, scoppiate in particolare nel 2006, quando Hamas andò al potere a Gaza. 

E’ una prospettiva che vorrebbe gettare le basi istituzionali per future elezioni e per la costituzione di un governo provvisorio di unità. Non è la prima volta che i Palestinesi cercano di attuare accordi di riconciliazione, sfociati purtroppo in ripetuti insuccessi. Questa volta la sfida va ben oltre la riconciliazione, visto che interviene nel bel mezzo di una guerra devastante fra Hamas e Israele a Gaza e dove l’obiettivo ad alto rischio di Israele è quello di distruggere completamente Hamas. Ma tant’è e la Cina rivendica un successo diplomatico lungimirante che getta le basi di un futuro Stato palestinese e un riconoscimento a pieno titolo della Palestina alle Nazioni Unite, un tentativo coerente se non fosse per l’estrema difficoltà a raggiungere un tale obiettivo.

Mentre le organizzazioni palestinesi negoziavano a Pechino, il Primo ministro israeliano è volato a Washington. Nel bel mezzo di una campagna elettorale in movimento e dagli esiti incerti, Netanyahu ha fatto un discorso vigoroso e controverso davanti al Congresso USA, ha riaffermato l’intenzione di Israele di raggiungere “la vittoria totale” nei confronti di Hamas e ha reiterato la richiesta del sostegno militare e finanziario da parte degli USA. Certo è che la devastante e ininterrotta risposta israeliana a Gaza e le terribili conseguenze sulla popolazione palestinese hanno indebolito anche il sostegno dei democratici americani a Israele, sordo finora alle richieste di tregua o di cessate il fuoco da parte degli Stati Uniti e di gran parte della comunità internazionale. Non solo, ma il recente attacco attribuito a Hezbollah sulle alture del Golan ha ulteriormente portato la tensione alle stelle, con la temibile e sempre più concreta prospettiva di un allargamento del conflitto in Libano e nell’intera regione. 

Tornando a Pechino, subito dopo la partenza della delegazione palestinese, è stato il turno del ministro degli Esteri ucraino Kuleba giunto a Pechino per un colloquio sulle possibilità di mediazione della Cina per un cessate il fuoco tra Kiev e Mosca e un avvio dei colloqui di pace. Se sulla Cina pesano ancora le recenti accuse espresse dalla NATO di sostegno alla Russia, sugli Stati Uniti pesano le incertezze della campagna elettorale e la prospettiva di un possibile ritorno di Donald Trump alla Presidenza. In questo scenario, teso e imprevedibile, a Pechino l’Ucraina ha aperto alla possibilità di negoziati di pace, “purché essi portino “ad una pace giusta”. Un’apertura che la Russia non solo stenta ad accogliere ma tende ad alzare il prezzo del conflitto con continui attacchi nel Donbass e minacce di missili nucleari all’intero Occidente. 

E’ in questo contesto globale che corrono i fili della guerra e della pace nei due conflitti che oggi bruciano ai confini dell’Europa. Certo è che una “pace giusta” rimane un traguardo sempre più lontano e sempre più in salita.

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