Non è il momento di distrarsi

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Stanno capitando in Europa e ai suoi immediati confini vicende troppo importanti per distrarsi su tormentoni italiani che di sicuro non fanno bene all’Italia, nà© alla sua immagine nel mondo.
Nel giro di pochi giorni si è infiammato il Mediterraneo, prima con la «rivoluzione tunisina» poi con le proteste in Egitto, la cacciata del primo ministro in Giordania, sommovimenti nello Yemen, repressioni in Algeria ed è probabile che la cosa non finisca lì.
Questi e altri problemi sono finiti sul tavolo del Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo, andandosi ad aggiungere a un ordine del giorno che da solo sarebbe bastato a far capire a tutti – anche se qualcuno da Bruxelles ha parlato d’altro, continuando con l’ossessione di un’Italia repubblica giudiziaria – che il momento è grave e si preparano decisioni importanti.
L’Europa, chiamata a prendere posizione su quanto accade sull’altra sponda del Mediterraneo, si muove ancora incerta e divisa: restano consistenti gli interessi post-coloniali di Paesi come la Francia e la Gran Bretagna, non sono chiari i calcoli dell’Italia con una diplomazia ancora distratta dalla casa di Montecarlo e alle prese con il problema delle forniture energetiche importanti da quell’area e con un alleato scomodo e impresentabile come il colonnello Gheddafi. Nà© consolano le esitazioni degli USA, ai quali ancora una volta si tende a delegare la questione.
Tutti temi delicati per il futuro di un’area con molti focolai di instabilità  , primo fra tutti quello del conflitto israelo-palestinese che rischia di nuovo di infiammarsi e non solo per gli attentati agli oleodotti.
Non meno delicato un problema interno all’Europa, quello dei debiti sovrani degli Stati membri, oggetto di un contenzioso che divide profondamente non solo i Ventisette, ma anche – se non di più ancora – i diciassette Paesi che condividono la moneta unica.
Questo è stato il tema centrale del Consiglio Europeo: come uscire dalla crisi finanziaria – e dalla crisi economica e sociale che ne è derivata – e mettersi al riparo dal rischio di fallimento in cui potrebbero incorrere i Paesi con un debito pubblico eccessivo?
La strada sulla quale ci si è incamminati è quella della creazione di un «Fondo salva-Stati», già   attivato per la Grecia e l’Irlanda ma che potrebbe dovere intervenire anche per Portogallo e Spagna e forse altri ancora. A dividere i contendenti non è tanto e solo l’ammontare del Fondo di cui si prevede un innalzamento a 440 miliardi di euro, al quale dovrebbero aggiungersi quelli del Fondo monetario internazionale (FMI) e del bilancio dell’UE. Decisive saranno le condizioni alle quali alcuni Paesi – Germania e Francia in testa – vincoleranno la decisione. In proposito Angela Merkel ha avuto il pregio della chiarezza, chiedendo per tutti criteri «alla tedesca»: adesione a un «Piano di competitività  » con l’obiettivo di ridurre radicalmente il debito, introdurre nelle Costituzioni nazionali soglie vincolanti per il deficit annuale sul PIL (si parla di uno 0,36%, quando in Italia nel 2010 è stato del 5%!), innalzare l’età   pensionabile, investire in formazione e ricerca, moderare i salari e armonizzare il fisco per le imprese. Il messaggio è chiaro: o mangiare questa minestra o saltare dalla finestra, aderire a questo piano di competitività   o dire addio al paracadute europeo in caso di fallimento dei conti pubblici nazionali.
Sull’argomento, chi rappresentava l’Italia non sembra abbia contato più di tanto, forse distratto da altre preoccupazioni o perchà© consapevole di essere sulla lista dei sorvegliati speciali.
Un’eco del problema si è fatta sentire in Italia, nel dibattito avviato da Giuliano Amato e marchiato dal titolo drammatico e del tutto prematuro di «patrimoniale», una tassa straordinaria destinata a tagliare radicalmente il debito pubblico abbassandolo da quello tendenziale del 120% sul PIL a quello della media europea attorno all’80%. Per chi sa fare di conto, significherebbe dover trovare un bel po’ di miliardi di euro prendendoli, si spera, dalle tasche dei più ricchi (si è indicata una soglia di reddito annuale superiore ai 100.000 euro), ma anche sottraendoli a una crescita già   ingessata attorno ad un 1% che non consente di ridurre la disoccupazione.
Sulla proposta tutti a stracciarsi le vesti e a non voler vedere che intanto – bene che vada e che la Banca centrale europea non aumenti i tassi a fronte di un’inflazione che ha superato il 2% – ogni anno versiamo, per i soli interessi passivi del nostro debito di 1870 miliardi di euro, la bellezza di 80 miliardi: una tassa che già   pagano quelli che non evadono il fisco e che non ha nemmeno il pregio alimentare l’economia.
E allora che fare? Almeno non distrarsi e non fare finta di niente. àˆ anche il consiglio di Giuliano Amato in suo lucido articolo su «Il Sole 24 Ore» del 6 febbraio: «Siamo tutti per la crescita e nessuno ha voglia di mettere le mani nelle tasche degli italiani più di quanto già   si stia massicciamente facendo. Ma il consiglio per chi guida è di avere la vista lunga e di non escludere nulla che possa servire domani a evitare che gli italiani, o la maggioranza di loro, un domani non l’abbiano più».

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