Mentre l’Unione europea discute di immigrazione, di respingimenti, di chiusura dei porti e delle frontiere, mentre nel Mar Mediterraneo navi cariche di disperati e di rifugiati aspettano di ottenere il permesso di attraccare su qualche spiaggia europea, continua senza sosta, da sette anni a questa parte la guerra in Siria.
E’ una tragedia che ha già causato quasi mezzo milione di vittime fra morti e dispersi, nonché più di cinque milioni di rifugiati, sparsi per la maggior parte nei Paesi vicini e alcuni in Europa.
Damasco, Aleppo, Goutha orientale, Homs, Idlib, Daraya, sono solo alcuni dei nomi che sono entrati nella nostra memoria per le distruzioni, i feroci combattimenti, la disperazione e la fuga degli abitanti, in particolare delle donne e dei bambini. Immagini insostenibili che si ripetono nel tempo, che hanno avuto finora solo l’effetto di scuotere la sensibilità della comunità internazionale, senza per questo portare, malgrado vari tentativi, ad un inizio di processo di pace.
Oggi, quella lista di luoghi si allunga ulteriormente con il nome della città di Deraa, nel sud-ovest della Siria, dove sono in corso pesanti combattimenti fra forze governative e ribelli. La popolazione è in fuga, decine di migliaia di persone cercano di fuggire verso le frontiere più vicine, verso la Giordania e Israele. Due frontiere che, per il momento, rimangono implacabilmente chiuse, anche se Amman ha già accolto, dall’inizio della guerra, numerosi profughi. Il rischio concreto è quello di una nuova catastrofe umanitaria, di un’ennesima drammatica strage nella storia di questa guerra.
Il regime di Bachar al Assad, sostenuto con determinazione dalla Russia e dalla sua aviazione, non ha infatti nessuna intenzione di fermarsi e procede senza esitazione verso l’obiettivo di riprendere il controllo della zona di Deraa, che, insieme a Idlib, nel nord ovest del Paese, rappresentano le due ultime zone ancora in mano ai ribelli. Come nei bombardamenti precedenti effettuati nel Paese, la tattica è sempre la stessa e cioé colpire anche obiettivi civili, come abitazioni, ospedali e scuole. La fuga, per gli abitanti, è l’unica soluzione.
La guerra in Siria, nelle sue numerose evoluzioni, è diventata ormai il teatro di guerra dei molteplici attori internazionali che si affrontano in Medio Oriente, rendendo la prospettiva di pace sempre più difficile da elaborare con i soli strumenti diplomatici. Sono coinvolti infatti, su fronti diversi, Russia e Stati Uniti, con una Russia decisamente a fianco di Bachar al Assad e Stati Uniti sempre più incerti nella loro politica di « sostegno ai ribelli ». Anche se non schierata sullo stesso fronte, accanto alla Russia c’è una Turchia che porta avanti la sua lotta contro i Curdi nel Nord della Siria. E, accanto a Russia e Turchia si è schierato anche l’Iran, già in difficoltà a causa dell’indebolimento dell’accordo sul nucleare voluto da Donald Trump e alla ricerca di un ruolo egemone nella regione. Non solo, ma la presenza iraniana in Siria con basi militari vicino a Damasco, inquieta fortemente lo Stato di Israele che considera ormai la Siria il vero terreno di scontro con l’Iran, un nemico comune, quest’ultimo, che ha alleato e unito le strategie politiche e militari dello Stato ebraico, degli Stati Uniti e delle Monarchie del Golfo nella regione.
In questo intricato scenario si son fatti strada, ogni tanto e senza successo, i tentativi di processi di pace di Ginevra e di Astana. La posta in gioco, per la pace, è evidentemente altissima. Ora, senza grandi speranze, l’attenzione della comunità internazionale sarà rivolta al prossimo incontro fra il Presidente russo Vladimir Putin e il Presidente americano Donald Trump, previsto il 16 luglio prossimo in Finlandia. Per ora è l’unico appuntamento in vista per dare voce alla diplomazia e alla pace.