Mobilitazione sindacale a Bruxelles per i diritti, la solidarietà   e la Pace

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Eravamo quasi 100.000 persone a sfilare per le strade di Bruxelles nel pomeriggio fresco di sabato 19 marzo. Venuti da ogni parte d’Europa, con presenze importanti dai Paesi dell’Est appena entrati nell’Unione europea e pezzi colorati di corteo di giovani dei sindacati e dei movimenti, finalmente insieme, con allegria e senza alcun segno di violenza. Deve essere anche per questo che, salvo alcune importanti televisioni straniere, la TV italiana che non ama il dissenso ma corre ghiotta alla prima vetrina rotta, non ha dato grande risalto a questo episodio destinato a pesare sulle vicende dell’Unione europea.
Ma perchà© così tanta gente, di ogni età   e di diverse sensibilità   politiche, si è raccolta a Bruxelles? Per dire sì all’Europa, ma anche per chiederne una diversa. Certo li univa la condivisione per un’Unione grande ed accogliente, ma più ancora la determinazione per chiedere un’Europa più sociale, più solidale e più pacifica. E un’Europa più sociale e più solidale vuol dire più impegno a creare lavoro e a proteggerne i diritti. Nella dura competizione internazionale dell’economia globalizzata è difficile coniugare solidarietà  , sviluppo e diritti. Cioè le condizioni per consolidare la pace dove esiste e per farla prevalere sui numerosi focolai di guerra che insanguinano il mondo.
Per questo 50 anni fa è nata l’Unione europea, per raggiungere questi obiettivi è cresciuta, si è ampliata e ancora continuerà   ad allargarsi negli anni che verranno. Ma adesso che l’Unione europea c’è e raccoglie 25 Paesi dopo aver riunificato l’Europa, adesso è venuto il momento di cambiarla. Questa stagione difficile della storia del mondo ha bisogno di un’Europa più coesa, più forte. Così coesa e forte da poter imporre nella competizione internazionale delle regole che salvaguardino i diritti e le conquiste sociali degli europei e, così facendo, diffondere quei diritti e quelle conquiste nel resto del mondo. Una sorta di «strategia preventiva» per ridurre le tensioni e con esse la concorrenza sleale sui mercati e la negazione dei diritti sociali in vaste regioni del mondo. Tra queste la Cina, ma non solo.
I 100.000 che il 19 marzo, su iniziativa della Confederazione europea dei Sindacati, hanno sfilato a Bruxelles condividevano la preoccupazione di vedere l’Europa cedere alla tentazione di competere nel mondo con una miope tattica di segno opposto: quella che consiste nell’abbassare la soglia dei diritti e precarizzare il lavoro per ridurne i costi. Con il rischio di essere sempre meno Europa e sempre meno il continente dove la solidarietà   e i diritti hanno accompagnato le dinamiche di mercato, spesso perverse se lasciate a se stesse.
A far esplodere l’allarme, un progetto di direttiva detta «Bolkestein» dal nome del Commissario europeo che la propose nella scorsa legislatura. Un’iniziativa legislativa che mira a liberalizzare i servizi, compresi quelli pubblici, per ridurne i costi, non importa se a spese della qualità   e in particolare mettendo a rischio i diritti dei lavoratori, con regole che ne indurranno l’applicazione al ribasso. Al di là   della complessità   di questa direttiva, è chiaro il forte segnale di cedimento del modello sociale europeo ad ideologie neo-liberiste che premono da oltre-Atlantico e che stanno inquinando il profilo non solo sociale, ma più ancora politico dell’Europa e della sua antica cultura dei diritti.
Sullo sfondo della mobilitazione di Bruxelles, la richiesta al Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo europei del 22-23 marzo di accompagnare il rilancio dell’economia con una dimensione sociale ed ambientale, anche per rendere credibili le prospettive della futura Unione contenute nella nuova Costituzione europea. Su quest’ultima pesa pericolosamente la scarsa conoscenza che ne hanno i cittadini europei e, di conseguenza, l’incerta adesione ai suoi contenuti. Con questa Costituzione qualche passo avanti verso un’Europa più solidale e più attenta ai diritti sarà   possibile. Senza di essa, il rischio è grande di tornare indietro e lasciare demolire un cantiere di solidarietà   e di civiltà   dei diritti che da 50 anni cresce sul nostro continente e che ha dato il più lungo e ininterrotto periodo di pace a Paesi da sempre in guerra tra loro.

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