Meno Unione Europea senza Schengen

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Poco meno di quarant’anni fa quella che si chiamava allora “Comunità europea” entrava in una stagione di rilancio del progetto di integrazione e riesumava gli obiettivi del Trattato di Roma del 1957 rimasti incompiuti, in particolare quello delle “quattro libertà di circolazione”: delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone, ognuna allora con stati di avanzamento diversi, in particolare quello del passaggio delle persone alle frontiere interne dei 12 Paesi che allora facevano parte della Comunità. Un’iniziativa che avrebbe fortemente contribuito alla creazione del mercato unico europeo entrato in vigore il 1° gennaio del 1993.

Due date importanti segnano la traiettoria della libera circolazione. Nel 1985 l’Accordo di Schengen, che si sarebbe negli anni esteso alla maggioranza dei Paesi UE, consentiva la libera circolazione all’interno delle frontiere comunitarie e rafforzava i controlli alle frontiere esterne.

Nel 1989 la caduta del Muro di Berlino avrebbe aperto negli anni questa libera circolazione in un mercato interno europeo allargato ai Paesi dell’est.

Era il segnale che quel pezzo d’Europa stava diventando una Comunità di cittadini liberi di circolare in tutti i Paesi membri senza controlli alle frontiere interne, accompagnando la realizzazione del mercato e della moneta unica con la creazione della “cittadinanza europea” iscritta  nel Trattato di Maastricht. 

Con l’esplosione del conflitto israelo-palestinese la libertà intravista nel secolo scorso conosce seri limiti, al punto che undici Paesi UE hanno sospeso nei giorni scorsi l’Accordo di Schengen e ristabilito i controlli alle frontiere, nel caso dell’Italia a quella con la Slovenia per il timore che i flussi migratori in provenienza dalla rotta balcanica potessero far transitare terroristi.

Non è la prima volta che questo avviene e ne sa qualcosa la Francia, vittima di molteplici attentati terroristici, ma altri Paesi vi hanno fatto ricorso, anche l’Italia in occasione di importanti Vertici internazionali, come nel caso del G8 di Genova nel 2001 e non solo.

La sospensione dell’Accordo di Schengen è prevista “in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna di uno Stato membro”  e deve essere formalmente motivata e sottoposta all’autorizzazione delle Istituzioni europee, come è correttamente avvenuto nei casi verificatisi nei giorni scorsi.

Non è però questa una ragione per sottovalutare queste decisioni, certamente non banali. Per almeno due motivi: il primo, perché la sospensione contrasta con le rassicurazioni date alla popolazione sull’assenza di pericoli imminenti; il secondo, perché con la sospensione viene giù un pezzo importante delle nostre libertà comuni, aggiungendo ai molti muri costruiti per difendere la nostra “fortezza europea” dall’esterno, altri nuovi muri per difenderci all’interno nei nostri territori nazionali. Incrinando così il tessuto della reciproca fiducia comunitaria e rallentando la crescita della cittadinanza europea, producendo argini nazionali che mal si addicono alla vita in comunità, col rischio che i venti del populismo che soffiano nell’UE alimentino nuove tensioni nazionalistiche.

Le misure di sospensione sono per loro natura provvisorie, ma è consentito prolungarle  fino a due anni e, nell’attuale congiuntura di guerre di cui non si vede la fine, potrebbero diventare la regola, invece che un’eccezione. Sarebbe il nostro modo di “entrare in guerra”, per il momento senza armi, se non quelle della polizia di frontiera. E non sarebbe una buona notizia.

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