Le parole protagoniste del Consiglio Europeo a Bruxelles

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Che il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo, riunito a Bruxelles giovedì e venerdì scorso, non fosse per nessuno una passeggiata lo si sapeva. Ma che ci volessero cinque ore di discussione per accordarsi su una parola a proposito della risposta al conflitto israelo-palestinese è almeno imbarazzante, vista l’urgenza di intervenire concretamente, ma traduce fedelmente la frammentazione politica di questa Unione Europea disunita.

I precedenti dei giorni scorsi certo non aiutavano, con i movimenti dei vari Paesi UE in ordine sparso, in incontri bilaterali e multilaterali che si sono intrecciati tra i leader dei diversi schieramenti e con vistose tensioni e polemiche anche tra i Vertici delle Istituzioni comunitarie. 

Qui la protagonista principale, questa volta non molto ispirata, è stata la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, con un doppio scivolone iniziale. Il primo nel farsi portavoce politica a nome dell’intera Unione che non le competeva in quella misura, il secondo nel posizionamento poco equilibrato in favore di Israele, non condiviso nei toni e nel merito tanto all’interno della Commissione, in particolare dall’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell e non solo, che da parte del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, portavoce dei governi membri. Ad aumentare la confusione aveva contribuito anche l’uscita precipitosa di un Commissario, a caso quello ungherese, in favore di una sospensione degli aiuti umanitari ai palestinesi, poi rapidamente recuperata con la decisione di rafforzarne invece le dimensioni.

Su questo sfondo il Consiglio europeo doveva adottare una posizione comune a fronte del conflitto in corso, cercando un compromesso tra la proposta di un “cessate il fuoco”, sollecitata dall’ONU e vicina alla posizione della Spagna, presidente di turno del Consiglio dei ministri UE, e una temporanea sospensione “umanitaria” delle ostilità. E qui per fermare la guerra ci ha provato una “battaglia di parole” con la Francia in favore di una “tregua”, la Germania – memore del suo passato e del suo appoggio tradizionale ad Israele –  con l’ipotesi più cauta di aprire “finestre umanitarie” e Josep Borrell proponendo di parlare di una “pausa”. 

Alla fine ha prevalso un compromesso adottato all’unanimità – un mezzo miracolo nel Consiglio della discordia – con l’invocazione di “pause umanitarie”, rigorosamente al plurale, per evitare che “pausa” al singolare fosse parola troppo vicina all’espressione “cessate il fuoco”, rischiando di indebolire il sostegno UE alla risposta di Israele ad Hamas, nei cui confronti la condanna è stata unanime e totale.

Da oltre Manica, dove l’esercizio semantico UE era probabilmente guardato con qualche ironia, è venuto un condivisibile commento della BBC al compromesso faticosamente raggiunto: “Può sembrare poco, ma per un’Istituzione che rappresenta 27 Paesi con punti di vista fondamentalmente opposti sul conflitto israelo-palestinese, è un compromesso”. E di compromessi la politica dovrà farne molti, compreso nello spazio mediorientale, per trovare una strada verso un cessate il fuoco e avviare un percorso verso quel traguardo spesso evocato, ma da sempre osteggiato, di “Due Popoli e due Stati” e che adesso sembra essere l’unica via d’uscita possibile, anche se non per domani.

Per questo il Consiglio europeo si è espresso in favore di una Conferenza internazionale di pace, sulla scia del tentativo, andato a vuoto, del presidente egiziano Al Sisi in un contesto in continuo movimento, in attesa di capire come si muoveranno altri attori come la Russia, poco credibile come protagonista di processi pacifici, la Cina sempre misteriosa e ambigua, senza dimenticare la Turchia alla ricerca di un ruolo di mediatrice, non esente da contraddizioni.  

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