Da alcuni giorni a questa parte si assiste, attraverso insopportabili immagini inviate dai media, ad un vera e propria tragedia anche in Iraq. Migliaia di persone in fuga, esecuzioni raccapriccianti e mostruose, bandiere nere che sventolano minacciose e cariche di violenza, veri e propri combattimenti per la conquista di territori e città da sottomettere al progetto di ampliamento di quello che è diventato il Califfato dello Stato islamico (IS) proclamato da Abu Bakr Al Baghdadi nello scorso luglio.
Un progetto da sempre sottovalutato ma apparso in tutta la sua concretezza solo negli ultimi mesi, in particolare da quando le forze dello Stato islamico hanno conquistato Mosul nel Nord dell’Iraq lo scorso giugno. Da allora, l’offensiva, la violenza e la brutalità dei combattenti jihadisti dell’IS e del loro obiettivo di estendere e di imporre la leadership dell’Islam sunnita a tutto il mondo musulmano e oltre non si sono fermati. La loro bandiera nera, con le scritte in bianco «Dio è il più grande» testimonia di questo progetto e della logica che lo sottende, e cioè quello di un modello storico, anacronistico e barbaro, di organizzazione politica del mondo musulmano al quale i jihadisti vorrebbero tornare. Un progetto che, oltre a sconvolgere i già fragili equilibri regionali, ad abolire le frontiere stabilite, come già avvenuto, ad esempio, tra Iraq e Siria, mette al centro della sua lotta anche l’intolleranza etnica e religiosa più profonda. Ne stanno facendo la tragica esperienza i Cristiani, in particolare i Cristiani assiro-caldei, una delle più importanti minoranze religiose in Iraq, oggi stimata, dopo le ripetute persecuzioni e gli esodi soprattutto a partire dalla prima guerra del Golfo nel 1991, a circa 400.000 persone (erano più di un milione agli inizi degli anni ’80). A seguire un’altra importante minoranza etnico-religiosa, di circa 600.000 persone, da sempre perseguitata a causa delle sue credenze e oggi particolarmente nel mirino dei jihadisti, gli Yazidi. La loro fuga e il loro cercar riparo nelle montagne del Nord dell’Iraq e nel Kurdistan iracheno fa tuttora temere un vero e proprio genocidio, perché, per queste minoranze, la scelta è solo tra la conversione e la morte.
Ed è, da una parte il grave pericolo che stanno correndo queste minoranze e dall’altra, forse la ragione strategicamente più importante, l’avvicinarsi dei combattimenti al Kurdistan iracheno che ha fatto scattare la reazione della comunità internazionale, Stati Uniti e Unione Europea in testa. Per fermare l’avanzata dell’IS, ormai troppo pericolosamente vicina alla Turchia e alle frontiere della NATO, gli Stati Uniti hanno deciso interventi militari e attacchi alle postazioni dell’IS, nonché aiuti umanitari ; l’Unione Europea, attraverso l’impegno di alcuni Stati membri, ha deciso di affiancare l’intervento degli Stati Uniti e, di fronte al disfacimento militare e politico dell’Iraq, di sostenere militarmente i ben più preparati Peshmerga curdi. Una decisione quest’ultima che non mancherà di sollevare, nel prossimo futuro, numerosi interrogativi: in primo luogo il futuro politico del Kurdistan e la sua volontà di indipendenza, un aspetto questo che richiama già l’eventualità problematica di una spartizione dell’Iraq, soprattutto se si considera che proprio nel Kurdistan si trova circa il 75% del petrolio iracheno. Il secondo spinoso interrogativo riguarda la portata dell’intervento UE e USA : basterà un sostegno militare ai soli Peshmerga curdi per fermare e sradicare la realtà, già estesa, del Califfato? E allora, se tale sostegno non sarà sufficiente, con quali alleanze regionali è immaginabile un intervento più esteso in futuro? Con l’Iran sciita e con Bachar el Assad in Siria? Rimane infine l’interrogativo del perchè i Governi regionali, Iran e Turchia in testa, i primi ad essere toccati dal consolidarsi dell’IS e del Califfato, dimostrino tanto disimpegno nell’affrontare tale situazione.
Tutto ciò ci indica, proprio alle porte dell’Europa, quanto complessa e tragica sia diventata ormai la situazione in Iraq e in tutto il Medio Oriente.