Lavoratori poveri: “zona grigia” per il welfare d’Europa

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Fin dal varo della Strategia di Lisbona (marzo 2000) l’UE indicava in prosperità   economica, competitività   e coesione sociale gli obiettivi da raggiungere, dandosi come orizzonte temporale di riferimento il 2010 in una situazione in cui il fatto di avere un lavoro poteva considerarsi fattore di protezione dal rischio di povertà  . Gli obiettivi di Lisbona 2000 sono stati ripresi e «attualizzati» dalla strategia Europa 2020, presentata dalla Commissione Europea e approvata dal Consiglio Europeo nel marzo scorso, anche se gli Stati membri non sono ancora riusciti a trovare un accordo sull’obiettivo quantitativo di riduzione del rischio povertà  .
A differenza di dieci anni fa, perà², oggi è chiaro che il lavoro in sà© non tutela dal rischio di povertà  : in base ai dati disponibili è da considerarsi «lavoratore povero» (working poor) il 6% dei lavoratori dipendenti e il 18% dei lavoratori autonomi.
Secondo la Fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Fondazione di Dublino) l’area dei “working poor” «è difficile da studiare a livello europeo, non soltanto perchà© mancano dati nazionali comparabili ma anche perchà© per definirla bisogna lavorare sul doppio livello della condizione lavorativa individuale e del reddito familiare».
La criticità   metodologica e concettuale sopra esposta richiede dunque un ampio coinvolgimento di soggetti che congiuntamente raccolgano e rendano disponibili dati e informazioni allo scopo di: definire in termini quantitativi (dimensione ed estensione in Europa) il fenomeno dell’”in work poverty”; conoscere le caratteristiche socio-demografiche delle persone che vivono questa condizione in prima persona; intraprendere una lettura comparata delle politiche di contrasto; coinvolgere nella riflessione i partner sociali; indagare sugli effetti prodotti dall’attuale fase recessiva.
Con questi obiettivi la Fondazione di Dublino ha realizzato uno studio comparativo in cui sono stati coinvolti tutti gli Stati membri dell’UE più la Norvegia e a cui ha preso parte anche la rete European Working Condition Obsertatory (EWCO).
Lo studio definisce lavoratori poveri coloro che hanno un’occupazione per almeno sei mesi nel corso dell’anno e hanno un reddito che si colloca al di sotto del 60% del reddito medio nazionale (la grandezza reddituale presa in considerazione è il reddito disponibile misurato sul nucleo familiare).
Il rischio di trovarsi nella condizione di lavoratore povero è più elevato negli Stati del sud (Spagna, Italia, Portogallo, Grecia) e in alcuni «nuovi» Stati membri, in primis la Polonia e le repubbliche baltiche.
Sembra, inoltre, che gli uomini siano più esposti al rischio di essere lavoratori poveri rispetto alle donne: la posizione di queste ultime è molto più grave quando esse sono le sole a produrre reddito in famiglie monogenitore, ma laddove il modello di famiglia è quello del «male breadwinner» la donna produce il secondo reddito familiare e questo cambia l’esposizione al rischio sia in termini individuali sia a livello familiare.
La giovane età   e il basso livello di istruzione aumentano fortemente il rischio di diventare lavoratori poveri (i meno istruiti corrono un rischio che è cinque volte superiore rispetto a coloro che hanno livelli di istruzione medio-alti).
Anche la situazione lavorativa intermittente o incompleta rappresenta un elemento critico: coloro che lavorano da meno di un anno o che hanno contratti part time vedono triplicare il rischio di diventare lavoratori poveri rispetto al resto della popolazione attiva.
Soltanto in sei Stati membri (Bulgaria, Cipro, Germania, Irlanda, Norvegia e Regno Unito) i lavoratori poveri sono destinatari di interventi mirati e di politiche che fronteggiano il fenomeno in maniera diretta; negli altri Stati membri gli interventi e le politiche indirizzate a questo target si inquadrano nel più ampio contesto delle politiche di contrasto alla povertà   e all’esclusione o nel dibattito sui sistemi di welfare.
Anche le parti sociali non fanno della questione dei “working poor” un tema centrale della riflessione, nonostante sia strettamente legato ad uno di quelli maggiormente dibattuti: i dispositivi di reddito minimo garantito la cui efficacia nel ridurre numericamente i lavoratori poveri non sembra pienamente dimostrata dai dati di questa ricerca.
Rappresentanze sindacali e soggetti datoriali hanno in tutta Europa, come era lecito attendersi, «ricette diverse» per fronteggiare l’aumento dei lavoratori poveri: i primi puntano sull’implementazione o sull’estensione dei sistemi di reddito minimo, mentre gli altri, che definiscono costosi sistemi di questo tipo, puntano sull’alleggerimento del carico fiscale per i redditi più bassi o sul miglioramento dell’occupabilità   dei soggetti a rischio che, per altro, si traduce in posti di lavoro magari quantitativamente più numerosi ma anche più intermittenti, più precari e meno redditizi in termini economici.
A complicare ulteriormente la situazione, fatta di drammi personali e familiari talvolta occultati per conservare l’immagine di «non poveri» rispetto al contesto sociale di riferimento, la crisi economica che sempre di più rischia di diventare crisi sociale dal momento che, anche se non vi sono ancora dati certi sulla relazione tra fase recessiva e aumento dei lavoratori poveri, vi sono molteplici indicatori economici e non solo che confermano quanto la crisi abbia reso vulnerati i vulnerabili facendo aumentare di dimensioni e mutare di forma quella «zona grigia» con la quale devono confrontarsi oggi sistemi di welfare che, se da una parte rischiano la continua e inarrestabile erosione, devono anche trovare il modo di non abdicare alla propria mission pena il grave e irreversibile scacco della cultura dei diritti, della cittadinanza e della solidarietà  .

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