Il ritorno di Draghi in Europa: verso dove?

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Nel suo discorso sullo “Stato dell’Unione”, pronunciato davanti al Parlamento europeo, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha colto tutti di sorpresa con il suo appello a Mario Draghi – “una fra le più grandi menti dell’Europa in materia di economia” –  per una sua “relazione sul futuro della competitività europea”. L’appello ha nei giorni scorsi fatto scorrere molto inchiostro e dato la stura a più di un commento, qualcuno anche malizioso. Lasciamo da parte chi si è lasciato andare a evocare “l’uomo della Provvidenza” con riferimento, magari con ironia, alla sua esperienza alla guida del governo italiano e cerchiamo piuttosto di collocare l’iniziativa della Von der Leyen nel contesto del momento politico europeo.

Non è senza importanza che l’appello sia stato rivolto nella seduta plenaria del Parlamento europeo, nel quadro dell’ultimo discorso sullo “Stato dell’Unione” della presidente della Commissione, destinato a fare un bilancio di legislatura e ad anticipare prospettive per il mandato 2024-2029, un’occasione per far balenare future candidature ai Vertici UE, tra cui la successione a se stessa.

Così non è banale che il tempo accordato a Mario Draghi per il suo rapporto sia esattamente quello che ci separa dalle prossime elezioni europee, in una stagione difficile per l’Unione Europea, descritta con severità da Draghi in un suo recente intervento sul settimanale britannico Economist, insieme con una serie di proposte che andavano bel al di là del tema, pure importante, della competitività, dall’esigenza di una “sovranità condivisa” a un profondo cambiamento delle regole di funzionamento UE fino a una competenza fiscale dell’Unione e alla costruzione di una politica comune della difesa. Quanto basta per presagire che la relazione di Draghi non si limiterà a suggerimenti tecnici di economia.

Si tratta di considerazioni che, unitamente alla sua provenienza nazionale e al suo profilo internazionale, hanno alimentato più di una speculazione, ad oggi con basi ancora fragili tenuto conto della volatilità del quadro politico europeo e, in misura crescente, anche di quello italiano.

Vi è chi ha visto nell’appello al banchiere europeo, salvatore dell’euro nella crisi del decennio scorso, un’apertura verso l’assunzione di responsabilità ai futuri Vertici UE. Non certo un ritorno alla presidenza della Banca centrale europea, oggi guidata non senza problemi da Christine Lagarde, anche perché la sua presidenza scadrà solo a ottobre del 2027, e nemmeno ai Vertici del Parlamento, senza correre nelle elezioni. 

Restano aperti due posti importanti: la presidenza della Commissione europea e quella del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo, entrambi nelle mani dei governi nazionali, la prima tenuto conto dell’esito elettorale al Parlamento europeo.

E’ improbabile, ma non impossibile, che la presidenza della Commissione possa andare, come nel 2019, a chi non correrà nelle elezioni; resta quindi, per esclusione, la presidenza del Consiglio europeo per la quale Draghi riempie tutte le condizioni giuridiche previste e, largamente anche quelle politiche, ma sarà necessario un consenso unanime dei 27 governi nazionali.

Qualcuno più malizioso si è chiesto che cosa farebbe il governo italiano se tutti gli altri governi convergessero su Mario Draghi, un profilo per l’attuale maggioranza piuttosto ingombrante. E’ però improbabile che questo avvenga: ci penserà due volte l’interessato, dopo l’esperienza fatta in Italia, a tornare nell’agone politico per ricoprire un ruolo ad oggi ancora debole a livello europeo. Anche se talvolta capita che il ruolo possa trasformarsi e crescere grazie al profilo di chi lo esercita.

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