Il patto di stabilità tra passato e futuro

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Il tema del “nuovo” Patto di stabilità dell’eurozona covava da tempo sotto traccia ed è letteralmente esploso nel dibattito politico italiano all’indomani della proposta di revisione presentata dalla Commissione europea. I fuochi di artificio sulla nostra scena politica non si spegneranno presto e vale capire capire come è stata accesa la miccia e da chi.

Intanto ricordiamo che cos’è il “Patto di stabilità e crescita”, ormai stabilmente amputato della seconda parte del titolo e non è un caso se ormai si parli solo di “Patto di stabilità”. Si tratta di un quadro di misure che mirano al governo della finanza pubblica dei Paesi che hanno adottato la moneta unica e che si sono impegnati a rispettare ciascuno per il proprio bilancio soglie compatibili del deficit e del debito pubblico con la stabilità dell’euro. Adottato nell’ormai lontano 1997, aggiornato nel 2005, fu chiamato in servizio nella crisi finanziaria del 2008 senza brillare per i risultati, aprendo la strada al nuovo Trattato intergovernativo del “Fiscal compact” del 2012 cui l’Italia aderì, modificando anche l’art. 81 della Costituzione (all’origine dello “scivolone” della maggioranza in Parlamento), impegnandosi al “pareggio di bilancio” e al rispetto dei vincoli sottoscritti con l’UE.

Quali siano questi vincoli lo abbiamo imparato a memoria, ma li abbiamo applicati poco: l’essenziale sta in due parametri, quello del contenimento del deficit annuale di bilancio al 3% e del debito pubblico consolidato al 60% sul Prodotto interno lordo (Pil). La previsione del governo italiano per il 2024 annuncia un deficit del 4,2% e un debito pubblico del 142,6%, non proprio in linea con i parametri UE, che la “nuova” proposta della Commissione non modifica, proponendo un programma di aggiustamento, da quattro a sette anni per il debito, con una riduzione annuale minima dello 0,5%, margini giudicati troppo generosi da Germania e “falchi” del nord e troppo punitivi dal governo italiano. Dai primi calcoli la riduzione del debito italiano costerebbe in questo caso all’Italia qualcosa attorno a una decina di miliardi all’anno: resta da capire dove prendere questi soldi, salvo rivedere le allegre promesse sbandierate in tempo di campagna elettorale, in particolare in materia fiscale.

Nel negoziato duro che si apre adesso, in vista di una possibile adozione del Patto entro la fine dell’anno, l’Italia ha poche carte da giocare: da una parte può cercare un’alleanza non facile con la Francia, che starà peggio di noi nel 2024 per il deficit (5,1%) ma meglio, senza nemmeno lei star bene, con il debito al 110,2%; dall’altra tentare di far leva sulla revisione del Meccanismo europeo di stabilità (MES), usandolo pericolosamente come arma di scambio, ma con il rischio di isolarsi nell’UE.

La  strada maestra da percorrere sarebbe di puntare su quella parola scomparsa dal Patto di stabilità, la crescita che, con l’aumento del Pil, ridurrebbe la percentuale del debito. Lo strumento sono gli investimenti pubblici, ma a condizione di avere le risorse necessarie per attivarli e che – come chiede l’Italia – non siano computati a debito, almeno quelli del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), sempre a patto che questo funzioni: troppe variabili per mettere tranquilli.

C’è da sperare che l’UE faccia prova di memoria, e con lei la Germania e lo stormo di falchi che la seguono, ricordando quanto accaduto alla Grecia a inizio decennio scorso quando venne strozzata dalle politiche del rigore complice, con le Istituzioni comunitarie, anche il Fondo monetario internazionale. Sarà meglio questa volta prevenire che curare, anche perché l’Italia con le sue dimensioni economiche e finanziarie in difficoltà rischierebbe di zavorrare l’intera Unione fino ad affondarla. 

Ci dovranno pensare due volte tutti, in questo anno che precede le prossime elezioni europee del 2024.

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