La costante imprevedibilità di Donald Trump nell’aggressione commerciale in corso verso mezzo mondo mette anche l’Unione Europea in un contesto di incertezza che induce a una prudenza che qualcuno giudica debolezza. In attesa che lo “scambio amichevole” tra Trump e Giorgia Meloni a Washington produca frutti concreti, la situazione resta complessa, tanto sul versante della risposta europea a Trump che su quello di potenziali nuove alleanze commerciali negli scambi mondiali.
L’Unione Europea, perplessa sull’affidabilità del vecchio alleato occidentale, sta esplorando da tempo altri sbocchi per il suo commercio, in particolare verso l’America Latina, con i Paesi raccolti nel Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay), verso i Paesi arabi e, più recentemente, con l’India, oltre che con il Canada con il quale si stanno rafforzando le intese commerciali.
In lista d’attesa incombe un cliente difficile per le sue dimensioni e per le sue pratiche commerciali non sempre corrette come la Cina, un Paese dove non è facile penetrare e del quale bisogna prepararsi ad arginare ulteriormente le esportazioni qualora non trovassero più sbocco negli Stati Uniti. Senza dimenticare la richiesta pressante di Trump ad isolare la Cina, con conseguenze geopolitiche non rassicuranti per la distensione nel mondo.
In questo quadro in rapido divenire si collocano gli orientamenti emersi ad oggi nell’Unione Europea cui compete la competenza esclusiva per la politica commerciale da convenire almeno con un voto a maggioranza qualificata dei 27 Paesi membri. Ad oggi i principali Paesi UE divergono tra chi insiste per una risposta dura con contro-dazi mirati su prodotti e servizi sensibili USA, come nel caso di Germania e Francia, e chi non rinuncia alla speranza di una trattativa limitando provvisoriamente i contro-dazi, come nel caso di Italia, Spagna e Polonia.
Le prime misure adottate sono piuttosto “amichevoli”, con contro-dazi limitati per valore finanziario, lasciando ancora senza risposta i vecchi dazi su acciaio, alluminio e auto e scalando nel tempo l’entrata in vigore delle misure già previste, rinviate di 90 giorni sempre che Trump non cambi idea sulla tregua annunciata.
In questo quadro politicamente complesso si aggiunge per l’Unione Europea un’ulteriore complicazione nella tensione tra le due sponde dell’Atlantico: l’insistente richiesta di Trump di puntare all’obiettivo del 5% del prodotto interno lordo per la spesa militare da parte dei Paesi alleati nella NATO. Quand’anche questa soglia dovesse probabilmente ridursi attorno al 3%, per molti Paesi si tratterebbe di un salasso insopportabile per le finanze pubbliche nazionali.
Ne sa qualcosa l’Italia, oggi ferma ad una spesa militare all’1,49% e impegnata a portarla entro l’anno al 2%, impossibilitata a raddoppiarla in breve tempo, pena interventi traumatici sulla spesa pubblica o sul debito, che intanto ha superato 3 mila miliardi di euro, tenuto conto che nel frattempo è già anche salita la pressione fiscale.
La tentazione per l’Italia è grande di raschiare i cassetti delle risorse comunitarie non spese con i fondi europei di coesione, cui aggiungere possibili residui del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), possibilmente senza avvalersi della deroga al Patto di stabilità, consentita per questo genere di spesa, tenuto conto che questo provocherebbe un ulteriore aumento del debito pubblico a carico delle future generazioni.
A fronte di questi blocchi, difficili da superare, cresce la pressione per una nuova creazione di debito pubblico europeo, come avvenuto nella risposta al Covid con il “Next generation Eu”, un’opzione gradita all’Italia ma non vista bene da molti Paesi UE, perplessi proprio sui risultati di quello straordinario sforzo finanziario europeo, tradottosi nel “Piano nazionale di ripresa e resilienza” dell’Italia che, con scadenza a fine 2026, ha speso ad oggi solo il 34% delle risorse disponibili.