Vi sono stati nei giorni scorsi eventi importanti al centro del confronto tra Europa e Stati Uniti: prima la partecipazione di personaggi europei di secondo piano all’assemblea dell’ala radicale dei conservatori USA a Washington e, lunedì, l’incontro del presidente francese, Emmanuel Macron, con Donald Trump, alla vigilia di un imminente incontro tra il presidente USA e il premier britannico Keir Starmer, all’indomani di un problematico voto all’ONU sull’integrità dell’Ucraina aggredita dalla Russia e, in coincidenza con il ricordo a Kiev dei tre anni di guerra, un G7 sede un tempo di un fronte compatto dei più importanti Paesi democratici a sostegno dell’Ucraina.
Per cercare di dare ordine alla confusione che regna sotto i cieli, senza per questo poter dire con Confucio che “quindi la situazione è eccellente”, cominciamo dalla chiassosa assemblea di Washington, una liturgia officiata dal padrone di casa, che si candida a diventare padrone del mondo, mondo permettendo.
Trump ha colto l’occasione per celebrare ancora una volta la sua vittoria con un prolisso discorso sul futuro messianico degli USA, attorniato da accoliti adoranti come il presidente argentino Javier Milei, altri meno importanti come il presidente slovacco Fico o di ritorno sulla scena, come il britannico Nigel Farage, e altri più defilati intervenuti a distanza, come Giorgia Meloni che non sembra aver colto grandi elementi di novità politica dell’amico americano, al punto da essere tranquilla sulla fedeltà dell’alleato nei confronti dell’Europa e dell’Ucraina, orgogliosa com’è di questa Italia dove tutto va bene, occupazione, economia e fiscalità comprese. Talmente senza pudore, al punto di essere scavalcata a sinistra dall’estrema destra francese con Bardella che ha rinunciato ad intervenire dopo il gestaccio nazi-fascista dell’ideologo di Trump (e Meloni) Steve Bannon, imbarazzo superato dalla nostra con sorprendente disinvoltura.
Lunedì è toccato a Macron un incontro meno rituale con Trump, non a caso pochi giorni prima dell’arrivo a Washington del premier britannico Starmer: i due erano reduci dall’incontro di Parigi del 18 febbraio, insieme con Germania, Italia, Spagna, Polonia, Olanda e Danimarca, alla presenza dei presidenti del Consiglio europeo e della Commissione europea. Tema centrale la prospettiva di una presenza militare europea sul terreno per proteggere l’Ucraina in vista di un annunciato disimpegno USA. Non contò tanto allora quello che si riuscì a decidere, quanto piuttosto l’avvio in embrione di una possibile nuova alleanza a geometria variabile tra i più importanti Paesi UE e il Regno Unito, l’altra potenza nucleare insieme alla Francia. Di quest’ultima si conosce la tradizionale riserva rispetto all’alleato americano, dal Generale De Gaulle in poi; del Regno Unito di oggi conosciamo la cauta svolta politica in corso per avvicinarsi all’UE, con il premier laburista consapevole del logoramento in corso del partenariato transatlantico, incalzato dal redivivo Nigel Farage, sponsorizzato dalla destra americana.
Da chiedersi se, nel trauma geopolitico in corso, non si stia profilando la formazione un nucleo europeo duro, per capacità economiche e militari, che vede riuniti il risuscitato “triangolo di Weimar” con la nuova Germania di Merz, in favore di una “difesa europea indipendente”, insieme a Francia e Polonia, cui si si sta aggiungendo sul versante urgente della difesa anche il Regno Unito.
Da chiedersi anche che ne sarà in questa prospettiva dell’Italia, guardata con sospetto da questi quattro Paesi: improbabile che abbiano cambiato idea dopo l’elogio interessato dell’amico americano a Giorgia Meloni davanti a Macron e l’esercizio di acrobatico equilibrismo, tanto nel voto all’ONU che nel G7, dove Giorgia Meloni è riuscita contemporaneamente a denunciare l’aggressore russo mentre esaltava il complice di Putin, Trump.