E’ guerra, non solo sui campi di battaglia

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Ci fu un tempo in cui la guerra era dichiarata ufficialmente secondo riti antichi e diventava visibile per la gente con le tradotte che partivano per il fronte, con le misure di restrizione delle libertà  , l’oscuramento delle luci e il razionamento dei generi alimentari. Era lo «stato di guerra» con la sua retorica, le sue angosce e le sue regole. Adesso che il copione è cambiato e si è fatto più confuso ci accompagna l’illusione di vivere in pace, una pace che noi europei siamo convinti di godere ormai da oltre mezzo secolo, un periodo insolitamente lungo se paragonato ai secoli passati. Ma, appunto, forse ci culliamo in una pericolosa illusione, scambiando per pace quella che invece è una guerra diffusa e continua che ha solo mutato d’aspetto e, ma non di molto, di teatro.
Non che la guerra sui campi di battaglia sia scomparsa: molti i conflitti armati fuori dell’Unione europea, alcuni ai suoi confini immediati come nel medioriente, in guerra da decenni e, in questa estate di follia, vittima di massacri quotidiani dall’Iraq ad Israele, dal Libano ai Territori Palestinesi. Sono terre su cui si consumano inimicizie antiche che sciagurate avventure militari hanno rinfocolato, rialimentando enormi giacimenti di odio che continueranno a dare i loro velenosi frutti negli anni futuri.
Ad uno sguardo superficiale l’Europa pare un’isola di pace, al riparo da conflitti cui non ha partecipato. E tuttavia sappiamo bene quanto grandi siano le responsabilità   di alcuni Paesi europei nelle cause nemmeno tanto remote che sono alla radice di queste guerre e che spiegano in parte la loro timidezza ed imbarazzo – con la felice eccezione dell’Italia – ad assumere vigorose iniziative di pace. Per convincersene basta uno sguardo alla carta geografica del medioriente, con quei confini che i vincitori della seconda guerra mondiale sembrano aver tracciato con il righello, nell’illusione antica di poter continuare a comandare dividendo popoli e culture, disegnando Stati artificiali a protezione dei loro interessi. Oltre agli USA e alla Russia, ne sanno qualcosa in particolare Gran Bretagna e Francia: ma non è solo storia di ieri, basta vedere lo spettacolo quotidiano al tavolo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dove risoluzioni urgenti hanno impiegato oltre un mese (con la morte di oltre mille civili) ad essere adottate e ancor più difficile si annuncia il loro rispetto sul terreno. E’ uno spettacolo che abbiamo visto nel corso di questa estate di guerra in Libano e che purtroppo torneremo a vedere fra qualche giorno quando si affronterà   il problema del nucleare in Iran, possibile attore insieme con la Siria di ben più gravi conflitti nell’area.
Fin qui le vicende delle guerre guerreggiate sul terreno, quelle delle sovranità   nazionali calpestate, dei carri armati che avanzano e dei missili e bombardamenti che seminano morte soprattutto tra i civili, tra donne e bambini senza nemmeno risparmiare i morti portati in sepoltura. In qualche modo ancora guerre di una volta, barbare come una volta, con finte regole umanitarie, ma guerre territoriali visibili, almeno nella misura in cui le televisioni ed i giornali riescono a far bene il loro lavoro.
Ma altre non meno barbare guerre, meno visibili ma altrettanto reali sono ormai entrate nella nostra vita: quelle del terrorismo internazionale che per definizione non conoscono confini, non hanno dimensioni territoriali e penetrano insidiosamente nella vita quotidiana. E’ il «nemico della porta accanto», come sta sperimentando la Gran Bretagna e come probabilmente sperimenteremo un giorno anche noi che, già   oggi, guardinghi scrutiamo i tratti somatici di chi sta in fila con noi per salire sull’aereo o rivediamo in fretta e furia i nostri programmi di vacanza. Anche da noi questa nuova orribile guerra è già   in corso e c’è chi non esita ad alimentarla preferendo trasformare gli stranieri che sono tra noi da cittadini con diritti e doveri in potenziali criminali da reprimere ed espellere fuori dai nostri confini, come se ancora ci fossero i confini di una volta con tanto di reticolati ed armi puntate pronte a sparare. Quasi il sogno folle di tornare alle buone vecchie guerre di una volta, ciascuno con la sua divisa ad immolarsi sulle sacre frontiere, fatte di nuovi muri, talvolta in cemento armato talvolta di latta.
Come è possibile non vedere che abitiamo lo stesso mondo, che insieme ci salveremo o ci danneremo e che queste nuove guerre ne genereranno di antiche e le antiche alimenteranno le nuove in una spirale di intolleranza, odio e terrore?
«Se vuoi la pace, prepara la guerra» dicevano rassegnati gli antichi. Noi che oggi nella guerra, se non quella territoriale sicuramente quella della reciproca intolleranza, ci siamo ormai dentro fino al collo abbiamo una strada sola: quella di tornare a «preparare la pace» come in Europa abbiamo provato a fare mezzo secolo fa. Facendolo meglio, imparando dagli errori del passato a far convivere non gli Stati ma i popoli, non le ideologie ma le culture e senza farsi ossessionare dai confini che ci condannano tutti ad essere stranieri gli uni agli altri.

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