Consiglio europeo d’autunno: chi l’ha visto?

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Non capita spesso che un Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo, come quello tenutosi a Bruxelles a metà ottobre, lasci così poche tracce nei commenti della stampa, figuriamoci nella mente dei cittadini europei. Per la verità, la tentazione era stata grande, alla vigilia del Vertice, di annullare l’appuntamento, tanto si prevedevano magri i risultati. Sopprimerlo però avrebbe rotto un rituale consolidato e sollevato, in questa stagione di smarrimento, ulteriori dubbi sulla vitalità dell’Unione Europea e sulla capacità dei massimi responsabili europei di affrontare le sfide sempre più impegnative che aspettano da tempo una risposta.

E così il Consiglio europeo ha avuto luogo, i giornali lo hanno in gran parte ignorato limitandosi, in mancanza di meglio, a registrare le provocazioni di Matteo Renzi in rivolta contro la Commissione europea accusata di fare la “maestra” con la matita rossa tra le dita per commentare e proporre correzioni alla discutibile “legge di stabilità” appena presentata dal governo italiano, convinto di essere tra i pochi a rispettare le regole UE. A complemento di queste dichiarazioni, per uso elettorale interno, sono largamente circolati commenti non proprio di elogio per il Presidente del Consiglio italiano, arrivato in ritardo all’appuntamento di Bruxelles, quando intanto si erano già riuniti in conclave tra loro Angela Merkel, François Hollande e David Cameron, senza prevedere un posto a tavola per Matteo Renzi.

Spazzate via queste notiziole che non segneranno la storia, ma che qualche schizzo gettano sull’Italia e sulla sua nuova leadership, altro di ben più importante andrebbe segnalato su quanto si muove ai “confini” dell’UE, dalla Gran Bretagna alla Turchia.

Della Gran Bretagna si dirà che non è ai “confini” dell’UE: non lo è ancora, ma si comporta come un Paese pronto ad andarsene, cercando intanto di frenare ogni decisione che possa portare l’Europa verso quella “Unione sempre più stretta” di cui Cameron non vuole più sentire parlare. La guerra interna non è ancora dichiarata, ma filtrano le prime rivendicazioni inglesi, in vista del referendum da tenersi forse già nel 2016. E a partire dal prossimo mese saranno turbolenze assicurate tra i 28 Paesi membri, particolarmente più intense con il 19 Paesi dell’eurozona.

Ai confini esterni dell’Unione Europea ritorna di attualità, non senza toni drammatici, la Turchia. Associata da oltre 60 anni all’Alleanza atlantica (NATO) e da decenni in trattative con l’Europa per entrare nell’UE, la Turchia ha avuto in questi ultimi anni, sotto la guida di Recep Erdogan, un’involuzione democratica che ha contribuito a raffreddare i negoziati di adesione, rinviandone “sine die” la conclusione. In tale contesto di tensione, aggravato dai recenti episodi terroristici, l’UE sta cercando di riavviare un dialogo obbligato, nonostante l’evidente imbarazzo di dover trattare con un interlocutore che non è certo un modello di democrazia. Tema urgente del dialogo è il tentativo di governare insieme l’emergenza migranti, con l’obiettivo che i due milioni di profughi siriani che vivono in territorio turco non si riversino sulla vicina Europa, ad oggi incapace di affrontare il problema, come hanno chiaramente dimostrato i permanenti disaccordi del Consiglio europeo sulla distribuzione di richiedenti asilo e migranti nel Paesi UE. A compensazione di questo costo sostenuto dalla Turchia, l’UE è orientata a destinarle un sostegno finanziario di circa tre miliardi di euro: una misura sulla quale Erdogan vuole vederci chiaro e che Angela Merkel, in visita in Turchia, cercherà di illustrargli e provare a convincerlo, offrendogli maggiori disponibilità in materia di visti verso l’UE per i cittadini turchi. Un mercato non proprio nobilissimo, ma inevitabile nella situazione in cui i governi europei si sono lasciati sorprendere, dopo aver perso una decina di anni fa l’occasione di accelerare il processo di adesione della Turchia all’UE. Allora perché i costi sembravano troppo alti, adesso perché alternative non se ne vedono: capita quando la politica – quella europea, come quelle nazionali – si illude che ci sia sempre tempo e si possa continuare a rinviare le decisioni.

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