
È stato un altro risveglio amaro per la democrazia la mattina del 9 gennaio scorso. Radio e televisioni ci informavano di quello che stava succedendo in Brasile, di un vero e proprio attacco alle Istituzioni da parte di quella destra radicale e violenta rappresentata dall’ex Presidente Bolsonaro. Una destra e un Presidente che non hanno mai, se non a fior di labbra, apertamente accettato la vittoria del Presidente di sinistra Lula alle elezioni presidenziali dello scorso mese di ottobre, instaurando in tal modo un clima di timore e inquietudine per la giovane democrazia brasiliana.
I timori si sono concretizzati con l’attacco simultaneo al Congresso, alla Corte suprema e al Palazzo presidenziale, luoghi simbolo dell’esercizio della democrazia e del dialogo. Con il ricordo ancora fresco dell’attacco, nel gennaio del 2021 a Capitol Hill, il Congresso americano, le immagini provenienti da Brasilia ci ricordavano la violenza alimentata dall’incapacità ad accettare una sconfitta elettorale, con la violazione fisica dei luoghi istituzionali e renderli inagibili all’esercizio di un potere eletto democraticamente. Scene quindi non nuove e drammatiche, in un Paese in cui la democrazia è nata meno di quarant’anni fa dopo un ventennio di dittatura militare, una democrazia ancora fragile e dalle radici ancora tenere.
Ma questo inizio di 2023 ha riportato inquietudine per la democrazia anche in altre parti del mondo, a cominciare da Israele e dalle elezioni parlamentari dello scorso novembre, le quinte in quattro anni. Il ritorno sulla scena politica di Benjamin Netanyahu con il suo partito, il Likoud e la formazione di un Governo di destra e di estrema destra con le forze più radicali e ultraortodosse che la Knesset abbia mai avuto, comincia a destare interrogativi e apprensioni in una parte della popolazione israeliana, tanto da indurla a scendere in piazza e manifestare contro il Governo. Fra bandiere arcobaleno, cartelli e striscioni, le inquietudini sono rivolte in particolare all’intenzione governativa di espansione degli insediamenti illegali in Cisgiordania, confermando in tal modo la marginalità o l’inesistenza della questione palestinese. Una questione mai risolta, lontana ormai anche dalle preoccupazioni della comunità internazionale, ma una questione che coinvolge circa 5 milioni di palestinesi, senza prospettiva di uno Stato, di garanzie per il rispetto dei diritti fondamentali e di una pace equa e duratura. Non solo, in quelle manifestazioni sono apparsi cartelli con la scritta “democrazia in pericolo”, in riferimento anche al progetto di revisione del sistema giudiziario, presentato dal Governo, che punta, in particolare, ad indebolire il ruolo della Corte Suprema del Paese.
Ma l’inquietudine più profonda, oggi, è generata da quello che sta succedendo in Iran. Senza parlare di “democrazia in pericolo”, poiché non si tratta qui di un regime democratico, il governo della Repubblica islamica continua a mandare a morte i suoi giovani. Giovani che non si fermano di fronte alle violenze e alle minacce del regime e continuano, da più di tre mesi a questa parte, a chiedere libertà e rispetto dei diritti fondamentali, chiamando a gran voce la democrazia.