Brexit, essere o non essere

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Quanto sia stato difficile entrare nell’Unione Europea, allora Comunità economica europea, lo testimoniano i tempi lunghi e i percorsi tortuosi che portarono il Regno Unito nella CEE nel 1973. Con la Brexit arriva la conferma di quanto sia complicato anche uscire dall’UE. Una vicenda iniziata oltre due anni fa – era il giugno del 2016 – con l’azzardato referendum, lanciato a suo uso e consumo dall’allora Primo ministro David Cameron, conclusosi con una debole maggioranza in favore dell’uscita dall’UE, dopo una campagna elettorale intrisa di demagogia e “fake news” che avrebbe fatto scuola un po’ ovunque, da una parte all’altra dell’Atlantico.

Ci sarebbero poi voluti nove mesi prima che il nuovo governo britannico di Theresa May si decidesse ad avviare la procedura di divorzio il 29 marzo 2017, data a partire dalla quale le parti avevano due anni per negoziare una separazione consensuale: a quella scadenza, il 29 marzo 2019, mancano altri nove mesi, da dividere a metà per tenere conto dei tempi necessari per le ratifiche che dovranno intervenire da entrambe le parti. Conclusione: o si trova un accordo entro fine anno, meglio se in autunno, o si rischia una rottura traumatica tra le due sponde della Manica.

E’ quanto teme in particolare l’UE che la settimana scorsa ha lanciato ufficialmente l’allarme, mettendo in guardia i Paesi europei e il Regno Unito da un’eventualità negativa per tutti, pur senza ancora drammatizzare troppo, visto che un’intesa sembra essere raggiunta all’80%. Ma si sa, in un negoziato sono gli ultimi nodi quelli più difficili da sciogliere e che, da soli, possono far saltare anche gli accordi già faticosamente raggiunti.

Per semplificare, due sono i principali nodi da sciogliere, entrambi originati dal ritorno delle frontiere, non solo quelle commerciali e quelle che ostacolano la libera circolazione di beni, servizi e persone, ma anche quella che potrebbe comportare una ricaduta ad alto rischio sui rapporti tra l’Ulster, Irlanda del nord, e la Repubblica di Irlanda: la prima fuori dall’UE e la seconda più dentro che mai. Ma entrambe con il ricordo ancora fresco di un passato di violenze, messe a tacere anche grazie alla convivenza pacifica di entrambi i Paesi all’interno dell’UE. Sono mesi che si chiacchera di una frontiera “porosa” tra i due Paesi, ma ad oggi nessuno sembra sapere come garantirla in un quadro di barriere alla libera circolazione.

Se l’uscita del Regno Unito dal mercato unico è acquisita, non sono chiare le modalità della sua presenza nell’unione doganale, con quali conseguenze per la libera circolazione di servizi e persone. In caso di mancato accordo è prevedibile un ulteriore caduta della sterlina, ma anche del tasso di sviluppo di entrambe le parti che potrebbe registrare una caduta attorno all’1%. Tornerebbe incerta la condizione dei residenti europei nel Regno Unito e dei loro diritti, ritardi e blocchi sono largamente prevedibili alle dogane e, nel vuoto giuridico che ne seguirebbe, potrebbero essere a rischio anche il traffico aereo da e verso il continente.

Quanto basta per far temere le conseguenze di una rottura del negoziato. Una lezione anche per gli “apprendisti stregoni” di casa nostra, e altrove, soggiogati dal ritorno delle frontiere e incapaci di spiegare quello che verrebbe dopo. La disastrosa esperienza britannica una cosa la manda a dire, con le parole chiare del suo celebre Bardo: anche per le frontiere va sciolto il nodo di “essere o non essere”.  “Tertium non datur”, con tutto quello che ne consegue.

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