Alla ricerca difficile del salario minimo europeo

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Ursula von der Leyen lo aveva annunciato nello scorso luglio nel suo programma per “un’Unione più ambiziosa”: l’impegno a proporre nei primi 100 giorni del suo mandato “uno strumento giuridico per garantire nell’Unione un salario minimo equo a tutti i lavoratori”.

A meno di due mesi dal suo insediamento l’iniziativa della Commissione è stata avviata e non sarà un’impresa facile da realizzare. Lo si capiva già dalla prudenza con cui il tema era stato formulato nel programma di luglio dove si prendeva cura di precisare che “i salari minimi dovrebbero essere fissati nel rispetto delle tradizioni nazionali, per mezzo di contratti collettivi o di disposizioni giuridiche” e lasciava intravedere la vi da seguire, quella del “dialogo sociale tra datori di lavoro e sindacati, cioè le persone che conoscono meglio il loro settore e la loro regione”.

In questa nostra Unione, ricca di differenze e di divergenze, le politiche del lavoro, e in particolare quelle salariali, non solo sono molto differenziate nei Paesi UE, ma sono anche sottratte in gran parte alla competenza dell’Unione che, perlopiù, deve limitarsi a promuovere forme di coordinamento tra le regolazioni nazionali.

A complicare le cose nel caso del salario minimo si aggiunge un’ulteriore diversificazione a livello nazionale: in 22 Paesi UE il salario minimo è determinato da dispositivi legali, negli altri da accordi contrattuali tra le parti sociali. Tra questi ultimi l’Italia, con Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia.

Si tratta di un puzzle difficile da far convergere verso un obiettivo condiviso: difficoltà di cui è ben cosciente la Commissione che, prima di formulare una proposta, ha avviato una consultazione delle parti sociali che dovrebbe concludersi entro il primo trimestre 2020.

La strada è tutta in salita non solo per le divergenze esistenti, ma più ancora per l’impatto che eventuali modifiche potrebbero produrre sul mercato del lavoro e sull’economia europea. In gioco vi sono pratiche di dumping sociale che alterano la concorrenza sul mercato del lavoro, originando delocalizzazioni di imprese alla ricerca di minori costi della manodopera. 

Questo spiega in particolare le resistenze dei governi dei Paesi a bassi salari che perderebbero un importante vantaggio competitivo: un esempio tra tanti, quello della Bulgaria con un salario minimo legale di 286 euro lordi rispetto al Lussemburgo con un picco di 2071 euro.

Una situazione che rivela nell’iniziativa della Commissione forse più audacia che coraggio, con il rischio di mettere le mani in un ingranaggio ad alto rischio.

Eppure in un mercato europeo, che si vuole “unico”, il tentativo va fatto, magari privilegiando la via contrattuale rispetto a quella, più rigida, degli strumenti legislativi e mirando a tempi lunghi per produrre convergenze praticabili, che tengano conto anche dell’evoluzione del costo della vita.

L’Italia è particolarmente interessata al tema: in proposito esistono proposte tanto dei Cinque stelle che del Partito democratico, ma anche le riserve dei sindacati che puntano a raggiungere l’obiettivo con la contrattazione, meglio in grado di tenere conto delle condizioni settoriali.

Difficile prevedere l’esito finale dell’iniziativa della Commissione, apprezzabile comunque per aver dato rapidamente corso a un impegno preso e per aver attirato l’attenzione sul molto che resta da fare per promuovere coesione sociale nell’Unione.

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