Afghanistan, torna la paura dei talebani

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Non ci sono né vincitori né vinti, ha perso l’Afghanistan. Dopo vent’anni dall’intervento americano, il Presidente Joe Biden, sulla scia di quanto già previsto in particolare dalla precedente Amministrazione Trump, ha deciso il ritiro totale delle truppe americane: sarà la data simbolica dell’11 settembre, giorno dell’attacco alle torri gemelle da parte di Al Qaeda. Un attacco che fece scattare la risposta militare americana contro quel regime dei talebani, fondamentalisti islamici armati, allora al potere e complici di Al Qaeda.

Ma le conseguenze  e i risvolti politici che questa decisione porta in sé sono molteplici. In primo luogo va sottolineato che la presenza militare USA e NATO (compreso il contingente italiano) ha garantito una certa stabilità, anche se molto fragile, a un Paese che da quarant’anni vive praticamente in guerra. Ma fa riflettere, in particolare, il comportamento egemone degli Stati Uniti nel negoziare il loro ritiro, visto che  trascina con sé anche quello di tutti i militari della NATO ancora presenti nel Paese.  In preparazione di tale ritiro, gli Stati Uniti non hanno esitato a concludere nel febbraio 2020 a Doha, nel Qatar, un accordo bilaterale con i talebani per avviare un processo di pace a garanzia di una ipotetica futura stabilità del Paese. Un accordo che escludeva dal dialogo diplomatico il Governo di Kabul, pur sempre eletto, e conferiva ai talebani quella legittimità di cui avevano e hanno tanto bisogno per accreditarsi sulla scena internazionale. Non solo, ma anche un accordo che non prendeva in considerazione le legittime aspettative dei cittadini afghani e non concordava tempi e modi per costruire un dialogo intra-afghano che avrebbe tracciato la via per negoziati di pace. Al riguardo, le concessioni americane fatte invece ai talebani erano molto significative, a partire dal ritiro completo e incondizionato delle truppe straniere come presupposto alla partecipazione dei talebani al dialogo di pace. Un’esigenza, quella talebana, che suonava più o meno “poi faremo quello che vorremo…”.

Inquieta infatti al riguardo, il rinvio della Conferenza di Istanbul sull’Afghanistan, prevista per il 24 aprile scorso e rimandata, per ora, a metà maggio per le continue nuove condizioni poste dai talebani alla loro partecipazione. Nel frattempo, l’amministrazione americana, nella sua fretta di abbandonare il Paese, in modo unilaterale e con l’idea di garantirsi un’uscita di scena un po’ più onorevole, ha già fatto sapere al Governo di Kabul quali debbano essere le prossime tappe: la formazione di un governo di transizione, composto da tutte le forze in campo e la revisione della Costituzione.  Ma la partita ha tutta l’aria di essere già persa in partenza.

Nel frattempo  violenze, scontri e combattimenti continuano in tutto il Paese e cresce sempre più la paura di un ritorno dei talebani al potere con la forza. L’Afghanistan è come un Paese in mezzo al guado che tenta di costruire Istituzioni democratiche, di sanare le ferite di una società civile ancora divisa e provata e soprattutto di garantire alle donne quei diritti e quella partecipazione alla vita pubblica tanto negati e tanto violati dai talebani. 

L’ultima considerazione riguarda l’Unione Europea. E’ il principale donatore di aiuti allo sviluppo dell’Afghanistan, prima degli Stati Uniti. Washington, in un atteggiamento tutto da valutare, non ha ritenuto opportuno coinvolgerla nei negoziati diplomatici, ma la speranza è grande che l’Europa, dal canto suo, non perda di vista i pericoli, le paure, le sofferenze e le speranze di pace di tutto un popolo. 

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