A Bruxelles un Consiglio europeo di svolta?

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Molto si è drammatizzato prima del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo, tenuto a Bruxelles la settimana scorsa, e molto si commenteranno ancora decisioni e orientamenti che hanno bisogno di tempo per svelare per intero le loro reali conseguenze sul contrasto alla crisi in corso.

Il primo commento giunto dai mercati e dall’andamento dello “spread” tra titoli pubblici italiani e tedeschi è stato incoraggiante, ma sarebbe ingenuo pensare che il fuoco divampato in questi mesi sia stato spento e che sotto le ceneri non covino altre possibili incendi. Intanto perché il problema della Grecia non è ancora stato risolto, Irlanda e Portogallo continuano a essere in affanno e la Spagna, quand’anche riuscisse a spezzare il corto circuito tra la sua crisi bancaria e il suo debito pubblico, avrà bisogno di tempo per far ripartire la crescita e rivitalizzare un mercato del lavoro che condanna uno su due dei suoi giovani alla disoccupazione.

Molto si è detto, non senza qualche comprensibile euforia, del ruolo dell’Italia nei difficili negoziati di Bruxelles e della ritrovata leadership europea del nostro Presidente del Consiglio. Senza nulla togliere ai meriti di Mario Monti, non va dimenticato che i risultati raggiunti sono stati il frutto di un lavoro di squadra: quello di un governo riemerso dalla pesante eredità ricevuta e di un’Italia che, con qualche malumore e fondate critiche, non gli ha fatto venire meno il consenso, malgrado un ceto politico in avanzato stato di decomposizione, che solo in alcune sue componenti si è fatto carico di una responsabilità difficile.

Poiché l’Unione Europea non è un torneo di calcio ad eliminazione diretta, non ha molto senso chiedersi chi ha vinto e chi ha perso, anche perché è ancora lontano l’esito finale delle molte e intrecciate competizioni in corso. Il mite Presidente UE, Herman Van Rompuy, se l’è cavata dichiarando che “ha vinto l’Europa” e guardandosi bene dal dire contro chi. Qualcuno vi ha visto una vittoria, se non una rivalsa, dell’Europa del sud contro quella rigorista del nord, arrivando addirittura a leggervi una sorta di “capovolgimento geopolitico” nell’UE.

Da buoni piemontesi ci viene da dire senza esitazioni “esageruma nen”, sapendo quanto fragile sia la forza dei Paesi del cosiddetto “Club Med” e quanta strada debbano ancora fare i due meno fragili – Francia e Italia – per far valere la loro visione di Europa, per altro non proprio del tutto omogenea, al punto da sconsigliare di concludere precipitosamente che allo storico asse europeo franco-tedesco succeda adesso quello franco-italiano.

Sarebbe un errore imperdonabile pensare che la “ritirata tattica” della Germania su alcuni punti – ma non sul rifiuto della condivisione del debito e gli euro-bond – annunci un ripensamento di fondo del suo ruolo in un’Europa, che a tutt’oggi è difficile da decifrare nella mente del popolo tedesco.

Molte delle decisioni prese hanno potuto approfittare di un “effetto annuncio” politicamente importante, ma solo a condizione che in tempi brevi seguano azioni concrete. Alcune misure, come quelle volute da Monti per raffreddare lo “spread”, sono state formulate con troppa vaghezza per poterne valutare l’effettiva portata prima che vengano precisate dal prossimo Consiglio dei Ministri delle finanze il prossimo 9 luglio. Le decisioni relative alla crescita non devono ingannare per i numeri: 120 miliardi non sono poca cosa ma in gran parte provengono da risorse già disponibili e difficilmente potranno essere attivate in tempi rapidi. Col tempo si capirà meglio il ruolo della Banca Centrale Europea (BCE), grande protagonista discreta del Consiglio europeo alla quale spetterà accompagnare la nascita e probabilmente la vigilanza sulla nascitura Unione bancaria. Un passaggio importante verso l’unione economica in attesa che l’UE si avvii verso l’unione politica, la sola vera risposta alle diverse crisi vissute dall’Europa e a quelle che ancora la attendono. Per muoversi in questa direzione il Consiglio Europeo ha affidato la definizione di una “tabella di marcia” ai Presidenti del Consiglio europeo, della Commissione, dell’Eurogruppo e della BCE. Non è ancora chiaro quale potrà essere su questa strada il ruolo del Parlamento Europeo, ma sarà inevitabile, oltreché doveroso, coinvolgerlo se si vuole affrontare il problema numero uno dell’UE: la sua legittimità democratica, oggi fragile e a rischio.

1 COMMENTO

  1. Che il ruolo dell’Italia nei difficili negoziati di Bruxelles lo ha ritrovato, quale leadership di un Governo riemerso da una pesante eredità ultra decennale, non è poco ma, neppure, è sufficiente, pur avendo bloccata la “decomposizione” di un sofferente sistema socio-economico di difficilissima ripresa.
    La “tappa essenziale” di fine giugno 2012, non si vince – neppure domani – tra “assi storici” che in passato generarono “altre” guerre ma – lo ripetiamo in tanti – con “più Europa” non solo quale unione economica e bancaria ma – contestuale – alla costruzione degli “Stati uniti democratici d’Europa”.
    Questa la strada, non solo a mio avviso, con una nuova “tabella di marcia” – indispensabile – che dovrebbe attivare un percorso, pur graduale, ma ben visibile e partecipato degli europei – condivisibile e informato – partendo e rispondendo con il “lavoro” contrattato e partecipato che – indubbiamente – crea un equilibrato “potere di acquisto” e risponde anche al rigurgito nostalgico italiano del “ritorno alla lira”.
    Tabella di interventi “cogenti” che diano risposte alle migliaia di disoccupati, non solo in Italia, che a maggio 2012 hanno raggiunto l’11,1% rispetto al 10% del maggio 2011.
    Un percorso binario e parallelo – a mio avviso – quale sostegno ad urgenti investimenti nella dimensione europea certa, mobilitando politiche attive del lavoro per i “meno giovani” che non vogliono ammortizzatori sociali, utili per la sopravvivenza ma apripista delle povertà famigliari.
    Gli italiani europei offrono con dignità e priorità – non a parole..parole – la personale disponibilità di “lavoro produttivo” che è – ancora – negato quale “esercizio di un diritto” – Signor Ministro del Lavoro – lontano da anni per milioni di giovani.
    Sono tanti – forse non prevedibili Signor Ministro – che a maggio 2012 raggiungono in Italia il 36,2%, contando che, oltre un giovane su tre è in cerca di lavoro.
    Ecco perché – non invento nulla Signor Ministro del Lavoro – necessitano “svolte rapide” congiunte anche ad altre svolte – pur utili ma “lontane” – quale è la “riforma del mercato del lavoro italiano” che “regola” gli specifici “ingressi” nei luoghi di lavoro – indennizzando o risarcendo le “uscite” – ma sono e saranno norme “attivissime” allorquando viaggeremo verso il “pieno impiego dei lavoratori”.
    Ecco, quindi, la urgenza di una “vera svolta” che partendo da Bruxelles – rappresentando le diversità socio-economiche dei 27 Paesi – con i “veri costi delle stabilità” e dei pareggi di bilancio che sono essenzialissimi ma – questi “rigori” – devono essere contestuali ed in parte utili verso mirate “opportunità” di “mobilitazione e ricerca” di ogni risorsa disponibile anche straordinaria,da “investire con lavoro produttivo”.
    Non escludendo ma consentendo ad ogni livello istituzionale anche “comunale” – possibili deroghe ai patti di stabilità – per rilanciare con il lavoro la caduta dei consumi mediante riduzione, programmata e pluriennale, della già riconosciuta alta pressione fiscale a lavoratori e pensionati, fonte nota di non evasione ed elusione di quel “civico dovere” di ogni cittadino, proporzionale ai “patrimoni” mobili ed immobili posseduti.
    Ecco, a mio avviso, l’avvio di una credibile e comprensibile “svolta” che se è partita con alti costi – da oltre 100 giorni dall’Italia – dovrebbe riverberarsi consapevolmente, con l’autorevolezza riconosciuta al Governo Monti, nella dimensione europea.
    Programmando “piani di investimenti straordinari” quale “svolta” che avvierebbe a “lavoro produttivo” sia giovani che meno giovani, si ridurrebbero a breve anche gli indennizzi per disoccupazione involontaria ed in parte anche l’incidenza sul crescente debito pubblico italiano.
    Donato Galeone

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