A Bruxelles si riprova con il bilancio UE 2014-2020

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Il negoziato sul “Quadro finanziario 2014-2020” – il futuro bilancio dell’UE – era stato sospeso nel Consiglio europeo del novembre scorso. Le posizioni dei Paesi erano troppo distanti per chiudere e i Capi di Stato e di governo si erano lasciati nella speranza che l’anno nuovo avrebbe portato qualche schiarita. Purtroppo non è andato così: i principali contendenti ritornano questa settimana a Bruxelles con qualche tensione in più. La Germania della Merkel deve fare i conti con venti di crisi, con i pessimi risultati della consultazione elettorale in Bassa Sassonia e i malumori crescenti nel suo partito, la Francia ritorna a Bruxelles delusa dallo scarso sostegno ottenuto dai partner europei per la sua azione militare in Africa, la Gran Bretagna arriva brandendo la sua minaccia di un referendum per o contro la sua permanenza nell’UE e l’Italia ricompare segnata dalle turbolenze della campagna elettorale in corso dove più di un partito in gara cavalca il risultato del negoziato a fini interni, alzando il tiro sulla nostra presenza nell’euro.

Nemmeno aiuta lo scenario di una crisi che si prolunga e la cui uscita viene ogni volta rinviata al semestre successivo, facendo registrare ulteriori arretramenti della crescita, dell’occupazione e aggravando le condizioni di povertà in Europa.

Non è difficile prevedere che il negoziato sarà difficile e improbabile la sua conclusione, nonostante che ormai i tempi premano, gli investitori mostrino chiari segni di incertezza mentre il rafforzamento dell’euro penalizza le esportazioni.

In questo clima, torneranno sul tavolo alcuni nodi fondamentali: come ripartire il contributo dei Paesi membri, quale soglia di spesa complessiva convenire e come articolarne le principali voci.

La ripartizione dei contributi è un problema antico e provocò nel passato tensioni non da poco, la più nota quella alimentata testardamente dalla Thatcher nel 1984 – resta celebre la sua frase: “voglio indietro i miei soldi” –  fino ad ottenere un rimborso, fonte di un pericoloso precedente tuttora irrisolto. E così adesso i Paesi cosiddetti “contributori netti”, che riportano a casa meno di quanto versano nel tesoro comunitario, rivendicano riduzioni per i loro versamenti. Tra questi la Svezia, l’Olanda, la Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia, tra tutti quella messa peggio.

Non stupisce quindi, che nell’attuale contesto di crisi e di casse pubbliche vuote, si chieda in Italia al nostro governo di alzare la voce e cercare di ridurre il contributo italiano. Richiesta non facile, che va a cozzare con l’altro problema aperto dell’importo totale del bilancio UE che più d’uno – Gran Bretagna e Germania in testa – vorrebbe ridurre. Uno scambio che non conviene all’Italia, che rischia di farne le spese. Attualmente l’importo attorno al quale si negozia per l’intera UE è di circa mille miliardi di euro nel settennio 2014-2020, un misero 1% del PIL europeo: l’Italia rischia di perderne circa sei miliardi rispetto al passato settennio, in particolare per le politiche di coesione e la politica agricola.

Si tratta di riduzioni significative, soprattutto per settori e regioni in difficoltà, senza dimenticare però che nel nostro Mezzogiorno la capacità di utilizzo dei fondi comunitari è molto bassa e alto il tasso di frodi.

Gli occhi di tutti sono puntati sulla Gran Bretagna e l’Italia: la prima sospettata di aver aperto al referendum anche per rafforzare la sua posizione negoziale, da sempre molto dura; l’Italia, in piena campagna elettorale, bisognosa di portare a casa qualcosa per dimostrare agli italiani che il vento è cambiato e che migliora la fiducia dei nostri partner.

Importante che l’esito non si limiti a un misero spot elettorale: in gioco non vi è tanto il consenso all’una o all’altra coalizione in gara, quanto il futuro dell’Europa e dell’Italia.

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