Turchia: tra pandemia e guerra in Libia

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La pandemia di coronavirus non risparmia nessuno e attraversa tutte le frontiere, siano esse fisiche, politiche, religiose o culturali. Si insedia ovunque e misura in ogni Paese capacità di resistenza e di tenuta politica, economica e sociale.

La pandemia non ha risparmiato nemmeno la Turchia,  Paese con più di 80 milioni di abitanti, ponte fra Europa e Asia e dove la progressione del virus è fra le più elevate al mondo. Interroga e inquieta  tuttavia il modo in cui il Presidente turco Erdogan, nelle cui mani si concentra ormai tutto il potere, affronta la crisi interna e cerca, nello stesso tempo, di accrescere la presenza militare turca sulla scena di guerra libica.

La strategia di contrasto al coronavirus è iniziata con il minimizzare la portata della gravità della situazione, ignorando quelle voci degli esperti e dell’”opposizione” che chiedevano a gran voce misure più adeguate e severe. Con un occhio rivolto alle prossime elezioni del 2023 e l’altro preoccupato per la tenuta dell’economia, il Presidente ha definito una sua linea di informazione e di protezione della popolazione che non ammette dissenso. Violenta in particolare la reazione nei confronti dei media, accusati di diffondere informazioni allarmanti e soprattutto nei confronti dei giornalisti, che, dall’inizio del mese di marzo, sono vittime di arresti arbitrari e di incarcerazioni, colpevoli di aver diffuso informazioni non in linea con quelle volute dal Presidente stesso. Non solo, ma anche medici e rappresentanti della comunità scientifica stanno attraversando un periodo doppiamente difficile, senza strumenti democratici e trasparenti di risposta ad una popolazione sempre più smarrita e inquieta. E questo in piena contraddizione con il faraonico progetto di costruzione del più grande ospedale d’Europa per la cura del coronavirus. 

Significativo del clima che regna in Turchia è anche il progetto di legge che permetterebbe il rilascio temporaneo di prigionieri e ridurrebbe in tal modo il rischio di propagazione del virus. Carceri sovraffollate che si sono riempite a dismisura soprattutto dopo il mancato golpe del 2016 e che ospitano oggi una popolazione in grave pericolo. Sono previsti sistemi alternativi di sorveglianza e arresti domiciliari che coinvolgerebbero migliaia di persone ma che escludono, fin da ora e senza possibilità di ricorso giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani, scrittori, avvocati, rappresentanti dell’opposizione e persone condannate per delitti di opinione. Tutte queste persone, di cui molte in detenzione preventiva, resteranno dietro le sbarre condannate ad un rischio estremamente elevato.

Con questo scenario sullo sfondo, si intensifica d’altro canto, l’attività e la presenza della Turchia nella guerra in corso in Libia, dove la presenza del coronavirus e i numerosi richiami della comunità internazionale per la sospensione del conflitto non fermano le armi. Anzi, proprio grazie al rinnovato impegno della Turchia a fianco di Fayez al-Sarraj e del Governo di unità nazionale di Tripoli  è stata fermata l’avanzata del Maresciallo Khalifa Haftar, invertendo in tal modo i rapporti di forza sul terreno. Una situazione che ridisegna la geopolitica del conflitto e ne interpella i principali attori, dalla Russia agli Emirati Arabi Uniti. E in un momento in cui l’intera Europa è barricata in casa e lotta contro un’indecifrabile pandemia che non smette di mietere vittime.

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