Quale pace e prosperità per il popolo palestinese?

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Era nell’aria da molto tempo, ma sembrava ormai una promessa caduta nel turbinio dell’indecifrabile e ambigua politica del Presidente Trump nei confronti del Medio Oriente. Il piano di pace per la Palestina, ideato e proposto dal genero del Presidente, è stato finalmente presentato il 25 giugno scorso a Bahrein, nel corso di un’apposita Conferenza dal titolo: ”Dalla pace alla prosperità”.

Si tratta di un piano  che contiene un ambizioso programma economico per lo sviluppo non solo di Cisgiordania e Gaza, ma anche dei Paesi arabi confinanti, in particolare Giordania, Egitto e Libano. L’obiettivo è quello di raccogliere, in dieci anni, una somma di cinquanta miliardi di dollari, facendo ricorso, in particolare, alle risorse delle ricche petromonarchie del Golfo e ad altre generosità internazionali. Le risorse previste e investite dovrebbero raddoppiare, in dieci anni, il prodotto interno lordo palestinese (PIL) attraverso investimenti in infrastrutture, trasporti, energia, agricoltura, turismo, istruzione. Inoltre, con la creazione di un milione di posti di lavoro, Il tasso di povertà dovrebbe diminuire del 50% e quindi portare benessere a un popolo rinchiuso da anni in una situazione politica senza futuro e ridotto allo stremo. Contrariamente al titolo dato, si puo’dire che il piano punta prima sullo sviluppo economico e alla “prosperità” dei palestinesi per giungere poi, in prospettiva, ad un ipotetico piano di pace fra israeliani e palestinesi tutto ancora da immaginare.

Ed è proprio su quest’inversione di strategia che il piano di Trump è difficilmente realizzabile e accettabile da parte dei Palestinesi, perché non tiene minimamente conto degli aspetti politici che caratterizzano da anni i rapporti conflittuali fra le due parti, in primo luogo l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, la continua colonizzazione, la separazione fra Cisgiordania e Gaza, la questione di Gerusalemme, il problema dei rifugiati, le questioni fiscali e finanziarie nei rapporti istituzionali, il problema dell’accesso alle risorse idriche da parte dei Palestinesi, ecc. Problemi importanti che toccano direttamente la pace e che non possono essere affrontati soltanto riversando sulla Palestina miliardi di dollari e ridurre cosi’ al silenzio e alla rinuncia  di sacrosante rivendicazioni. 

Il tono e la portata limitata di questo piano sono stati tuttavia  lungamente preannunciati dalle decisioni prese dal Presidente Trump nei confronti dei Palestinesi in questi ultimi mesi, decisioni che hanno inasprito e interrotto i rapporti fra l’Autorità Palestinese e gli Stati Uniti. In primo luogo la decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e di trasferirvi la propria ambasciata e a, seguire, la sospensione dei finanziamenti USA all’agenzia UNRWA in favore dei profughi Palestinesi, la chiusura della rappresentanza palestinese a Washington e il riconoscimento delle Alture del Golan come territorio israeliano. Decisioni che non vanno certamente nella direzione di un approccio equilibrato e negoziabile di un processo di pace, soprattutto se si pensa alle richieste essenziali palestinesi : la fine dell’occupazione israeliana nei Territori occupati nel 1967 e la creazione di uno Stato di Palestina indipendente. 

Ciononostante, il Presidente Trump e suo genero, malgrado le perplessità dimostrate da alcuni Paesi arabi, esclusa l’Arabia saudita, e dall’Unione europea, hanno preannunciato la presentazione, “a tempo debito” di una parte politica del piano di pace. Hanno tuttavia anticipato che tale parte non sarà veramente in linea con le aspirazioni del popolo palestinese e con l’ormai fragile iniziativa di pace del 2002 della Lega araba. 

Sta di fatto che in prospettiva e in quel “a tempo debito” potrebbero inserirsi due appuntamenti importanti per definire i contorni di un’ipotetica pace in Medio Oriente : nuove elezioni politiche israeliane in settembre dovute alla mancanza della formazione di un Governo di coalizione da parte di Netanyhau e l’inizio di una campagna elettorale presidenziale negli Stati Uniti. Due appuntamenti che non volano con un ramoscello d’ulivo nel becco.

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