Prove di governo mondiale

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«Detesto la guerra. Rovina la conversazione». Lo ha scritto due secoli fa Fontenelle, un filosofo francese non privo di ironia. Dev’essere anche quello che si sono detti in molti alla notizia della morte dei militari italiani in Afghanistan dopo che da mesi sono al centro dell’attenzione conversazioni private e non, con tutto il seguito il chiacchere che sappiamo. Si spera che con l’occasione siano finalmente in molti a capire che in Afghanistan è in corso una guerra – perchà© di questo si tratta – e che l’Italia vi è coinvolta senza che ad oggi se ne veda una via di uscita.
Magari qualcuno avrà   anche finalmente capito che il mondo è uno solo e che ci siamo dentro tutti fino al collo, nel bene e nel male.
Lo hanno ulteriormente confermato gli avvenimenti di questi ultimi giorni, dal confronto all’ONU sulle drammatiche prospettive del surriscaldamento climatico fino alla riunione del G20 a Pittsburgh dove sono successe cose anche più importanti delle gaffe del presidente del Consiglio italiano, come attestano puntigliose sequenze fotografiche sull’incontro con la signora Obama.
Negli appuntamenti della settimana scorsa e in quelli previsti entro l’anno – come a dicembre il Vertice a Copenaghen sul riscaldamento globale – hanno preso forma e trovato un primo avvio importanti tentativi di nuove forme di governo del mondo, che si lasciano alle spalle consunte politiche del secolo scorso dove ancora galleggia l’Europa, figuriamoci l’Italia.
A Pittsburgh i venti Paesi più ricchi del mondo – il nuovo G20 nato in occasione della grave recessione in corso – hanno convenuto significativi orientamenti per il governo finanziario ed economico, lasciando ad un residuale G8 (quello ormai in coma profondo delle potenze occidentali, la cui morte cerebrale venne celebrata il mese scorso a l’Aquila) l’illusione di esprimere astratte considerazioni politiche.
Due gli elementi essenziali da annotare in vista degli sviluppi futuri: l’irruzione, nelle prove di governo multilaterale del mondo, di Cina ed India con la conseguente riduzione del ruolo di USA ed Europa e la conferma del ruolo crescente del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e, a termine, di altre Agenzie internazionali.
La ricomposizione del gruppo capofila nel governo globale ha aspetti complessi e in forte evoluzione: dalle nuove responsabilità   che sembra finalmente volersi assumere la Cina, alle difficoltà   per Obama di tradurre con coerenza – come sta valorosamente cercando di fare – i suoi impegni per una radicale svolta della politica americana tanto in casa sua che nel resto del mondo. In casa sua si sta giocando molta parte del consenso sul fronte della riforma sanitaria, in politica estera incontra sulla sua strada personaggi poco disposti al dialogo: in Medio Oriente il presidente dell’Iran con la sua minaccia nucleare e il presidente israeliano con la sua politica di insediamento nei territori occupati in Palestina; in Afghanistan la riconferma di un presidente, Karzai, su cui pesa l’ombra di brogli elettorali e l’inaffidabilità   delle alleanze con i “signori della guerra” se non peggio, in una fase bellica che solo quest’anno ha registrato oltre 200 morti tra i soldati americani e con la necessità   di aumentare la presenza militare in un Paese dal quale tutti sono usciti con le ossa rotte.
Sul fronte più propriamente economico il G20 ha rafforzato la presenza di Cina, India e Brasile nel Fondo Monetario Internazionale, ha riaffermato la lotta al protezionismo impegnandosi per una crescita forte e sostenibile, ha temperato gli scandalosi super-compensi dei banchieri, ma non ha annunciato la fine della crisi economica – come qualcuno da noi continua a fare con irresponsabile leggerezza – visto il deterioramento crescente della crisi occupazionale.
E la nostra vecchia Europa in tutto questo e, in essa, l’Italia?
Il nostro Paese ha fatto la sua rituale comparsata, facendo finta di non capire che con l’affermarsi del G20 andava ancora riducendosi il suo ruolo – già   non proprio brillante – nella politica mondiale, come sta avvenendo anche per l’Europa.
A Pittsburgh del riconfermato presidente della Commissione europea non si è accorto nessuno o quasi, un po’ di più si sono visti l’inglese Brown e il francese Sarkozy nella vicenda del nucleare iraniano.
Peccato, perchà© sarebbe stata una buona occasione per l’Europa di alzare la testa e farsi sentire, cosa solo parzialmente avvenuta sullo stop ai «bonus» dei banchieri. Due sole deboli attenuanti: l’attesa del passaggio elettorale tedesco che sancisce, con la vittoria non esaltante della Merkel, l’uscita dei socialdemocratici dal governo e annuncia una nuova politica economica in Germania e, probabilmente, in Europa.
L’altra attenuante era l’ansiosa vigilia del referendum irlandese sul Trattato di Lisbona: adesso che queste due attenuanti non ci sono più, anche l’Europa non ha più scuse. E sono in molti ad augurarsi che capisca finalmente dove sta andando il mondo per darsi una regolata.

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