Si può ancora immaginare una pace fra Israele e Palestina?

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Nelle infinite tragedie che scuotono il Medio Oriente, passa purtroppo quasi sotto silenzio l’allarmante attualità dei rapporti fra Israele e Palestina, attualità che sembra compromettere definitivamente qualsiasi prospettiva non solo di pace, ma anche per la costituzione di due Stati chiamati a convivere rispettosamente su una terra condivisa.

Uno degli ultimi campanelli d’allarme è suonato alla Knesset il 16 novembre scorso. A larga maggioranza il Parlamento israeliano ha adottato un progetto di legge che legalizza la presenza di un centinaio di piccole comunità ebraiche, insediate da circa vent’anni a questa parte sulle colline della Cisgiordania.

Il progetto di legge, presentato dall’estrema destra Casa Ebraica e sostenuto da una parte del Likoud, il partito di Benjamin Netanyahu, dovrà affrontare ancora due letture in Parlamento per essere definitivamente adottato, ma già rappresenta un segnale estremamente inquietante per il futuro. Prima di tutto è la prima volta che la Knesset discute e intende adottare una legge sulle terre palestinesi, una legge equivalente o molto vicina a un’annessione e a un’estensione di sovranità da parte dei deputati israeliani sul controllo della Cisgiordania, ruolo normalmente affidato all’esercito. In secondo luogo è un progetto di legge assolutamente contrario al diritto internazionale. Per ora, in prospettiva, due altre letture in Parlamento e, in ultima istanza, il parere della Corte suprema.

Presentato appena una settimana dopo l’elezione di Donald Trump, tale progetto rivela, da una parte, l’orientamento della destra nazionale e religiosa israeliana, al potere con la destra del Likoud, sul futuro delle relazioni che Israele dovrebbe ridefinire con gli Stati Uniti e, dall’altra, il sogno sempre vivido di annettere definitivamente la zona C della Cisgiordania e dire definitivamente addio alla prospettiva dei due Stati.

Questo sogno sembra prendere sempre più corpo con le prime decisioni di politica estera prese direttamente da Donald Trump proprio in questi giorni, in particolare l’annuncio della nomina, il 16 dicembre scorso, di David Friedman come ambasciatore americano in Israele, la cui ambasciata dovrebbe avere sede a Gerusalemme. Si tratta di una sciagurata promessa fatta durante la campagna elettorale, volta a riconoscere Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato di Israele. Da notare che la maggior parte delle ambasciate della comunità internazionale, compresa quella degli Stati Uniti, per il fatto che non riconoscono a Gerusalemme un tale statuto, hanno la loro sede a Tel Aviv.

Lo statuto di Gerusalemme rappresenta in effetti un punto molto sensibile nella geopolitica della regione e per il futuro di un ormai ipotetico processo di pace israelo-palestinese. Israele infatti ha proclamato l’insieme della città come sua capitale unica e indivisibile nel 1980 ed occupa Gerusalemme –Est dal 1967. I Palestinesi invece vogliono fare di Gerusalemme Est la capitale dello Stato a cui aspirano da più di 70 anni.

Nell’attesa di capire quali saranno le prossime mosse degli Stati Uniti, è lecito chiedersi se esiste ancora una minima speranza di pace in quel pezzo di Medio Oriente e quali saranno le reazioni della comunità internazionale e dei Paesi che ad oggi hanno avuto il coraggio di riconoscere la Palestina.

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