Vigilia elettorale

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Mancano solo tre settimane alle elezioni politiche italiane, ma tre settimane sono ancora tante: per chi vuole accrescere i consensi, per chi già   non ne puಠpiù di questa campagna elettorale impalpabile e, più ancora, per chi avesse un debole per le previsioni sicure. Fortunatamente non ci collochiamo in nessuna di queste tre categorie, ma in quella – più modesta – di osservatori di un passaggio probabilmente non così epocale come vorrebbero farci credere, alla ricerca di segnali di un incerto futuro che stenta a prendere il posto di un passato a tutti noto. Il passato è di quelli che non passano mai: a sessant’anni dalla Costituzione ne avvertiamo erosi molti dei valori che la fondarono e incompiuti molti degli obiettivi che fecero sognare i «padri costituenti». La democrazia rappresentativa che ne scaturì si è andata via via isterilendo in costose pratiche formali con poveri risultati sostanziali. La distanza tra i cittadini e le loro istituzioni è cresciuta e la partecipazione al voto diminuita di consultazione in consultazione, traducendo indifferenza, rassegnazione e protesta.
Contemporaneamente, il Paese ha visto crescere la sua ricchezza ma anche aumentare squilibri territoriali e sociali, al punto da far dire a qualcuno che «si stava meglio quando si stava peggio».
Nel mondo il ruolo del nostro Paese non si puಠdire abbia registrato una curva inarrestabile verso credibilità   e affidabilità  . Neanche nella vicenda dell’integrazione europea, dove pure siamo stati tra i promotori, i nostri risultati complessivi sono particolarmente brillanti. Restiamo il Paese che si segnala per il maggior numero di infrazioni alla normativa comunitaria, l’impegno dei nostri politici nelle istituzioni europee è spesso episodico (basti pensare a Franco Frattini, che ha appena lasciato la vicepresidenza della Commissione europea attirato in Italia da un possibile ministero e alla metà   dei nostri europarlamentari già   rientrati in Italia dall’inizio della legislatura nel 2004) e continuiamo a essere il fanalino di coda tra gli Stati membri, se non in tutto almeno per il debito che, benchà© significativamente ridotto in questi due ultimi anni, è ancora abbondantemente al di sopra del 100% del nostro PIL.
Questo, e non è tutto, per il passato. Ma che ne sarà   del nostro futuro? E come vi rispondono le forze politiche che si confrontano nella competizione elettorale?
Lasciamo da parte le promesse poco credibili che ci prospettano un futuro con meno tasse e più servizi. Non incanagliamoci più del necessario con Giulio Tremonti che, d’intesa con la Lega, minaccia dazi alla Cina e dintorni e magari sogna di uscire dall’euro o finge di lasciarlo credere.
Stendiamo un pietoso velo sull’ex-ministro della Difesa Antonio Martino che vorrebbe riportarci in Iraq e del suo capo che vorrebbe veder guerreggiare i nostri soldati in Libano.
Aspettiamo che si dissolva il polverone di questi giorni sulla vicenda Alitalia dove, ai disastri del passato (15 miliardi di euro di perdite in 15 anni), si aggiungono le turbative di mercato di questi giorni e l’irresponsabilità   di usare l’incertezza di migliaia di lavoratori per rafforzare certezze elettorali.
Lasciamo dunque da parte queste e altre sguaiataggini e concentriamoci su una sola domanda: queste elezioni cambieranno l’Italia consegnandola, inerme e squilibrata com’è, al «tutto-mercato» e al suo interprete più disinvolto e irresponsabile o ristabiliranno progressivamente il potere regolatore dello Stato non solo per stimolare l’economia ma anche per garantire maggiore giustizia sociale e un ritorno alla legalità  , diventata in questi anni un «optional» riservato a utopisti o «testimoni»?
Eric Hobsbawn in un suo saggio recente («La fine dello Stato») ci ha ricordato, con dovizia di argomenti, quanto si sia andato dissolvendo questo presidio di democrazia e quanti pericoli questo contenga per il futuro del pianeta in mano alle multinazionali o, peggio, alle scorribande finanziarie come dimostra la congiuntura grave in cui stiamo precipitando. A forza di proclamare lo «Stato leggero» siamo approdati allo «Stato fantasma» e «stato» è diventato il participio passato del verbo essere, qualcosa che c’era e non c’è più.
Mille segnali ci dicono che ad avere il vento in poppa è proprio il mercato e a poco sembra valere l’allarme di chi quel vento vede diventare uno «tsunami» che finirà   per travolgerci tutti: prima quelli dei «piani bassi» – disoccupati, precari, pensionati – ma poi anche quelli dei «piani alti» in procinto di segare il ramo su cui stanno, provvisoriamente, comodamente seduti.
E qui diventa comprensibile la rassegnazione di molti e la protesta di quanti meditano di rinunciare al voto. Atteggiamento comprensibile anche se non condivisibile: che in un simile contesto il voto possa servire a poco non è una ragione per regalarlo, non votando, a chi vuole proprio ciಠche rifiuto con ostinazione. E cioè che, con la democrazia formale, se ne vada anche l’ultimo presidio di una convivenza civile che è lo Stato, per lasciare il posto alle scorribande selvagge del mercato.
A sessant’anni dalla Costituzione repubblicana è più doveroso che mai contrastare efficacemente e insieme, come si è fatto l’anno scorso rispedendo al mittente una riforma costituzionale inaccettabile, il tentativo di chi voleva stravolgere questa nostra Repubblica fondata sul lavoro di tutti e non sul profitto di qualcuno.
Buon voto a tutti.

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