Il lungo viaggio di Trump in Asia

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Non succedeva da tanti anni che un Presidente degli Stati Uniti decidesse di effettuare un viaggio di così lunga durata in Asia: dodici giorni fra Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine. Sullo sfondo le grandi tensioni che persistono nelle relazioni con la Corea del Nord e soprattutto nuovi interessi economici per gli Stati Uniti.

Doveva essere un viaggio destinato a dare, all’insieme del continente asiatico, alcune risposte ad interrogativi che avevano suscitato, fra i vari Paesi, non poche inquietudini durante la campagna elettorale del presidente Trump. In primo luogo risposte ad una delle sue prime decisioni da Presidente e cioè quella relativa al ritiro degli Stati Uniti dal TPP (Trans Pacific Partnership – Trattato di libero scambio transpacifico). Negoziato per anni dall’Amministrazione Obama, il TPP è stato firmato nel 2015 da dodici paesi dell’area Asia-Pacifico, rappresentanti circa il 40% dell’economia mondiale. L’obiettivo principale era quello di contenere l’espansionismo commerciale della Cina nella regione.

Oggi, lo smantellamento di quell’accordo, anche se non ancora entrato in vigore, sommato alla nuova dottrina protezionista e isolazionista di Trump, nonché alla sua politica di privilegiare accordi bilaterali, ridanno forza ai tentativi della Cina di ridisegnare il paesaggio degli scambi economici e degli accordi commerciali nella regione. Ci si aspettava, al riguardo, che l’incontro tra Trump e Xi Jinping avvenisse su sfondo delle tensioni che lo stesso Trump non ha mai smesso di alimentare fin dalla sua campagna elettorale, accusando la Cina di pratiche commerciali sleali, di “rubare posti di lavoro agli Stati Uniti”, di furti di tecnologie e proprietà intellettuale.

E’ stato invece un incontro che ha messo in evidenza i rispettivi rapporti di forza nel commercio e nell’economia globale e dove Trump, malgrado i suoi atteggiamenti e le sue dichiarazioni, ha non solo riconosciuto la potenza della Cina e della sua forte crescita, ma ha anche negoziato sostanziosi accordi a favore del suo Paese. Fra contraddizioni e imprevisti cambiamenti di rotta del Presidente, si può dire che si tratta di una vera svolta diplomatica rispetto alla precedente politica di Obama in Asia, come nel caso del TPP, una svolta molto gradita alla Cina, alle sue ambizioni espansionistiche e al suo obiettivo di diventare la prima potenza mondiale.

Questa svolta rappresenta tuttavia un’incognita per molti Paesi della regione, ai quali Trump non ha fornito quelle risposte che si aspettavano. Paesi come il Vietnam, le Filippine, la Tailandia o la Cambogia si interrogano su come evolverà la crescente influenza della Cina e quali saranno le ricadute sulle rispettive economie e sui rispettivi Governi.

I toni del Presidente Trump non sono stati infatti gli stessi quando si è recato al Vertice dell’APEC (Cooperazione economica per l’Asia Pacifico), in Vietnam, dove il protezionismo, il rifiuto di firmare accordi multilaterali di commercio e “l’America viene prima” sono stati il suo solito e brutale leit-motiv.

Infine, in Cina, Trump voleva convincere Xi Jinping ad esercitare una maggiore pressione sulla Corea del Nord. Una richiesta gentilmente valutata sottolineando che la Cina sta già facendo molto al riguardo, in particolare votando all’ONU, in questi ultimi mesi, le sanzioni contro Pyongyang. In questo momento di sostanziosa crescita, la Cina non vuole infatti né instabilità nella regione né la caduta di Kim Jong Un e punta a contenere, da una parte, l’impazienza bellicosa di Trump e dall’altra a rafforzare la pressione delle sanzioni sulla Corea del Nord.

Difficile dire, alla fine di questo viaggio, quali saranno effettivamente, al di là dei futuri contratti, le ricadute politiche per Trump. Certo è che il Presidente degli Stati Uniti sta fornendo alla Cina gli strumenti più importanti per diventare la prima potenza mondiale, e non solo nel campo economico e commerciale.

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